L’alta via si sviluppa su sentieri, strade forestali, e brevi tratti di strada asfaltata, è percorribile nel periodo primaverile ed autunnale, se intrapreso nel periodo estivo è necessario munirsi di una buona quantità di acqua per la poca presenza di approvvigionamenti lungo il percorso.
L’escursione è adatta a persone abituate a percorsi di montagna con difficoltà medio elevata. Il percorso (solo andata) parte dalla piazza del paese di Perino e si conclude alla chiesa di San Medardo nell’abitato di Peli. Percorre principalmente sentieri CAI ben segnalati, ma è comunque necessario prestare attenzione nell’ultima parte del percorso per la presenza di tratti forestali indicati solo con la segnaletica contrassegnata dalla stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina. È presente un solo punto acqua nell’abitato di Boioli.
Difficoltà Difficile Livello Escursionistico Lunghezza 18,6 Km Durata 7 ore al netto delle soste
Inizio/Fine Perino di Coli (PC) - Peli di Coli (PC) Dislivello salita 1270 m Dislivello discesa 570 m
Il percorso si svolge prevalentemente su creste, promontori e affioramenti rocciosi unici nella provincia di Piacenza. Lungo tutto il tragitto lo sguardo sconfina su valli vicine e lontane, alternando il cammino fra un passo deciso e un pensiero proteso verso il limite dell’orizzonte. Una caratteristica questa che ripercorre in qualche modo l’esperienza del movimento libertario, che dalle sue origini sino ai giorni nostri ha dovuto interagire con il suo circostante, richiamato ad attualizzare nuove e vecchie lotte, rimarcando come meta quel lontano orizzonte di libertà.
La partenza è situata nel paese di Perino (208 m) dove è possibile rifornirsi di acqua e viveri. Attraversata la piazza si percorre la ripida via dei Paggi che dopo pochi tornanti porta alla località Belvedere dove parte il sentiero CAI 151. Il sentiero, passando prima per la piccola frazione di Vezzera, sale per ampi tratturi sino a Boioli alle pendici del Monte Armelio. Nell’abitato di Boioli è presente fra le case l’unico punto acqua del percorso, distante una decina di metri dal sentiero. La via riprende quindi per una ripida carraia sino a Case Covati dove, attraversato un breve tratto asfaltato, imbocca un comodo sentiero che ci conduce nei boschi ai piedi del Monte Belvedere e da lì successivamente sull’ampia cima panoramica (1053 m). Giunti sulla sommità del Belvedere il cammino percorre tutta l’alta via che porta a toccare le cime del Monte Filippazzi (1123 m), Monte Gonio (1127 m), Poggio Alto (1237 m). Discesi alla selletta dell’ultima vetta si procede in direzione del Poggio Croce, sempre seguendo i segnavia 151, ed in breve alla cresta rocciosa del Poggio Vaccari (1230 m). Discesi da quest’ultimo in direzione del Monte Capra si attraversa un pascolo posto su un piccolo altopiano che divide le due formazioni rocciose. Il sentiero, inerpicandosi in un breve tratto boscoso (segnavia CAI 159) giunge nel breve alla magnifica cresta rocciosa che contraddistingue il Monte Capra (1310 m). Percorsa nella sua interezza tutta la cresta si riprende il sentiero CAI 151 che prosegue in direzione del Passo di Santa Barbara, dapprima per sentiero poi per ampia carraia forestale. Giunti su terreno pianeggiante si nota un segnavia dedicato che indica l’abbandono del sentiero per una traccia forestale che in discesa ci porta sulla vicina strada provinciale per Coli (presenza di diversi segnavia dedicati). Si prosegue a questo punto per un centinaio di metri su strada asfaltata e si imbocca poi il sentiero sulla sinistra (segnavia dedicato), percorrendo il sentiero in leggera discesa che fra guglie di roccia e calanchi ci porta all’abitato di Averaldi. Si prosegue quindi sulla strada provinciale sino alla chiesa di San Medardo.
Il sentiero si conclude ai piedi della statua del comandante anarchico Emilio Canzi, dove ogni anno a Settembre, l’ANPI di Piacenza organizza una “Festa Partigiana”, occasione ideale per percorrere questo impegnativo sentiero.
«L’anarchismo è il viandante, che va per le vie della Storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca. Egli sa che il destino, che la sua missione è riprendere il cammino, additando alle genti nuove mete», scrive Camillo Berneri sulle pagine de L’Adunata dei Refrattari, giornale degli anarchici italiani espatriati negli Stati Uniti.
In effetti, la storia degli anarchici nella Resistenza è la storia di un cammino lungo, faticoso e ininterrotto, che comincia ben prima della caduta del Regime. I percorsi di molti partigiani anarchici si intrecciano già sulle barricate degli Arditi, sui campi di battaglia della Spagna, sulle vie del fuoriuscitismo, e nelle colonie di confino. Eppure, è difficile tracciare un quadro generale in una storia fatta più di singole individualità che di un unico movimento collettivo. Spesso gli anarchici scelgono di combattere la Resistenza in formazioni di altro orientamento politico, mettendo in primo piano la necessità di fare fronte comune, e li troviamo sparsi come piccoli punti da unire all’interno di un grande disegno. Le loro biografie sono uniche e ricche, e si muovono tra diversi Paesi, diverse storie, diverse lotte. Con la loro intransigenza antifascista, sono tra i primi ad entrare in azione dopo il 25 luglio 1943. Tuttavia, man mano che si avvicina la Liberazione, vengono messi da parte. Mentre cresce il peso dei partiti politici che attraverso i Comitati di Liberazione diventano protagonisti della Resistenza e del dopoguerra, c’è sempre meno posto per i “senza-partito”, che mantengono una fiera diffidenza nei confronti della democrazia rappresentativa.
Gli anarchici sono in prima linea per combattere il fascismo fin dal suo sorgere, senza esclusione di colpi e su ogni fronte europeo, sorretti da idee radicali e senza confini. Nel 1921 i libertari accorrono nelle fila degli Arditi del Popolo, organizzazione paramilitare che intende opporsi in armi all’avanzata squadrista. Nei quartieri popolari di tante città italiane si innalzano barricate, e si risponde in maniera risoluta alle azioni fasciste. Per molti partigiani anarchici sarà questo l’inizio di una lunga trafila di lotta, che culminerà nei mesi della Resistenza.
La Marcia su Roma segna la via dell’esilio per molti anarchici, per i quali d’altra parte la sorte di “cavalieri erranti” non è nuova. Nel corso del Ventennio, una serie di attentati di mano anarchica alla vita del Duce fa crescere la repressione, con ondate di arresti, perquisizioni e sequestri di giornali e volantini. Molti riparano in Francia, in Svizzera, negli Stati Uniti, e lì riprendono a incontrarsi, discutere, riunirsi, stampare materiale di propaganda, sempre tenuti sotto stretto controllo dagli agenti all’estero dell’Ovra. Anche nei giorni più bui, quando in Italia il Regime gode del massimo consenso e ogni opposizione sembra impraticabile, gli anarchici sanno tenere viva la fiaccola dell’utopia, e continuano instancabili a progettare l’insurrezione.
Nel 1936 numerosi volontari anarchici affluiscono in Spagna a difesa delle forze repubblicane minacciate dalla Falange di Francisco Franco. Riuniti in una specifica Sezione della Colonna internazionale “Ascaso”, combattono in Aragona e Catalogna e sperano che presto la lotta antifascista incendi anche l’Italia.
Ma ormai il nazismo dilaga in Europa, e nel 1940 anche la Francia viene invasa dalle truppe di Hitler. Nel paese occupato si costruiscono campi di concentramento per raccogliere i tanti reduci antifascisti della Spagna. Consegnati alle autorità italiane, gli anarchici italiani vengono inviati al confino. Molti di loro sono detenuti a Ventotene, dove riallacciano contatti e amicizie.
La caduta del Regime del 25 luglio 1943, momento di gioia per tutti gli antifascisti, segna invece per gli anarchici un peggioramento delle condizioni di vita. Mentre tutti i partiti avviano trattative con il Governo Badoglio per la liberazione dei propri detenuti politici, gli anarchici rimangono ai margini delle interlocuzioni. Nemici non solo del Duce ma anche del Re, non vengono liberati ma trasferiti nel campo di Renicci di Anghiari (Arezzo) insieme a nazionalisti sloveni e partigiani jugoslavi: il loro status passa da “confinati” a “internati”, e le condizioni di detenzione peggiorano. Per loro la liberazione arriva solo nei giorni successivi l’8 settembre, quando l’esercito tedesco invade la Penisola.
Dopo lunghi anni, molti anarchici possono fare ritorno a casa, con un carico di consapevolezza politica e un’esperienza di lotta antifascista che in pochi possiedono. Da subito decidono di aderire ai Cln, e collaborare con i nascenti partiti politici nonostante le antiche diffidenze.
I partigiani libertari sono relativamente pochi e spesso si uniscono a brigate d’altra ispirazione politica, ma in alcune zone riescono a costituire proprie formazioni. A Carrara, tradizionale roccaforte anarchica, nasce il Battaglione “Gino Lucetti”, comandato dall’ex ardito Ugo Mazzucchelli. A Torino opera una squadra di sappisti anarchici intitolata a Pietro Ferrero, sindacalista della FIOM ucciso vent’anni prima dagli squadristi. In Lombardia operano le Brigate “Bruzzi-Malatesta”, guidate da Mario Perelli, ex redattore di Umanità Nova, e da Germinal Concordia “Michele”, che collaborano strettamente con i socialisti delle Matteotti. Nella Liguria di tradizioni portuali e anarco-sindacaliste operano le formazioni libertarie “Malatesta” e “Pisacane”.
Per gli anarchici il 25 aprile 1945 non significa la fine della lotta. Nel settembre 1945 viene fondata la Federazione Anarchica Italiana, e si tiene a Carrara il primo grande congresso anarchico dell’Italia liberata. È un momento atteso di incontro dopo anni di esilio, confino e lotta, e una nuova occasione per esercitare l’attitudine libertaria al pensiero critico e anticonformista. In controtendenza rispetto alle speranze di cambiamento della maggioranza degli italiani, gli anarchici esprimono critiche ai Cln, che sono sempre meno espressione di governo dal basso e si stanno velocemente trasformando in organismi burocratici e verticistici. Anche l’avvicinarsi del voto per la Costituente e il referendum istituzionale mettono a dura prova gli anarchici, che scelgono di confermare la tradizionale linea astensionista. L’amnistia per i crimini fascisti promulgata da Palmiro Togliatti nel giugno 1946 rappresenta per gli anarchici una grande delusione. Non imbrigliati da ragioni e calcoli di partito, molti scelgono di abbandonare definitivamente ogni collaborazione con i Cln e le commissioni di epurazione. Soprattutto attraverso la loro stampa, intelligente e vitale, continueranno a costituire per l’Italia del dopoguerra una voce libera che denuncia lottizzazioni di partito, opportunismi, e tradimenti degli ideali antifascisti.
La storia di Emilio Canzi, che arriva a ricoprire la carica più alta della Resistenza piacentina, è emblematica del lungo e travagliato percorso attraverso il quale gli anarchici arrivano sulle montagne partigiane. Un caso davvero unico, perché Canzi è il solo comandante di Zona anarchico, ma anche per il lungo conflitto di autorità che lo vede protagonista. Tra i primi a salire in montagna, comandante partigiano stimato, verso la fine del conflitto viene messo da parte. Con l’approssimarsi della Liberazione, cresce il controllo dei partiti sulle formazioni partigiane, e l’anarchico Canzi, che non rappresenta altro che sé stesso, non trova spazio all’interno dei nuovi equilibri politici.
Nato nel 1893 a Piacenza, in Cantone della Camicia, Emilio Canzi frequenta una scuola tecnica e trova lavoro come commesso in un negozio di abbigliamento. La sua militanza inizia dopo la Prima guerra mondiale, nella quale combatte con il grado di sergente maggiore. Tornato a casa, aderisce all’Unione Anarchica Piacentina, ed è istruttore nella formazione di Arditi del Popolo denominata Battaglione Cantarana, come uno dei quartieri popolari del centro cittadino. Nel giugno 1922 un’azione squadrista alla Cooperativa di Sant’Antonio finisce male: gli Arditi intervengono, inseguono gli assalitori, e ne uccidono uno. Questo episodio segna una stretta di vite da parte delle autorità, che avviano indagini e perquisizioni. Canzi prende la via dell’esilio ed emigra in Francia, dove partecipa alle associazioni di fuorusciti. In Francia conosce anche la giovane anarchica Vittorina Parmeggiani, con la quale intreccia una relazione e costruisce una famiglia. Nel 1936 parte per la Guerra di Spagna e si arruola nella Sezione Italiana della Colonna “Ascaso”. Nel settembre 1937 fa ritorno in Francia, ma presto viene arrestato dalla Gestapo, e deportato nel campo di concentramento di Hinzert. Consegnato alle autorità italiane, viene confinato a Ventotene e poi a Renicci di Anghiari, da dove riesce a fuggire solo dopo l’8 settembre 1943. Pochi giorni dopo fa ritorno a Piacenza, dove partecipa alla costituzione del Cln provinciale e viene subito nominato responsabile militare. Con alcuni uomini di fiducia sale a Peli di Coli, dove inizia a raccogliere armi a uomini. Canzi sceglie il nome di battaglia “Ezio Franchi”, e cerca la collaborazione dei contadini e dei ribelli di ogni orientamento politico sparsi sulle colline piacentine, mantenendo sempre i contatti con i dirigenti politici della lotta clandestina. Suo braccio destro è il parroco di Peli, l’antifascista don Giovanni Bruschi. In montagna, incontra nuovamente molti giovani arditi che aveva guidato sulle barricate nel 1922, che lo ricordano come un antifascista coerente e intransigente. Nell’agosto 1944 il Cln Alta Italia incarica Emilio Canzi di formare un Comando Unico in grado di coordinare le attività partigiane in tutta la provincia di Piacenza. Canzi accetta questa carica apicale e cerca di esercitarla in maniera efficace ed equilibrata: media le rivalità tra i comandanti, passa in rassegna ed organizza le brigate, cerca di coordinare l’azione militare. Uno sforzo che non basta a frenare l’avanzata nemica nei mesi del grande rastrellamento invernale, quando le formazioni partigiane vengono disperse. Questo episodio è alla base di molte critiche mosse a Canzi, accusato di essere ormai anziano, incapace di un reale coordinamento, poco preparato dal punto di vista militare. Critiche che vengono amplificate dal Partito comunista, che a Piacenza è debole e cerca di conquistare posizioni di comando. Davanti agli attacchi comunisti, Canzi trova l’appoggio del Partito d’Azione, della Brigata Giustizia e Libertà di Fausto Cossu e del Corpo Volontari Libertà (Cvl) di Milano. Dall’altra parte c’è il Comando Nord Emilia, sempre più strettamente controllato dal Pci, che il 20 aprile 1945, con un colpo di mano, esautora Canzi e nomina un nuovo Comandante Unico. Canzi partecipa alla presa della città come partigiano semplice, e segue la sfilata della smobilitazione del 5 maggio 1945 dal palco delle autorità, fianco a fianco con coloro che ne avevano ordinato l’arresto. Non riceve nessun diploma, ma significativi applausi dai suoi partigiani.
Nel dopoguerra continua ad opporsi con tenacia all’ingiustizia della quale era stato vittima. Il Cvl apre un’inchiesta, mentre i comunisti continuano a ribadire la presunta inettitudine militare dell’anarchico. La soluzione trovata è un compromesso: pur non sconfessando la nomina del nuovo Comandante, il Cvl riconosce a Canzi la qualifica di comandante unico dalla formazione del comando stesso alla smobilitazione. A sbloccare la situazione è forse anche una terribile e paradossale fatalità: pochi giorni prima Canzi è stato vittima di un incidente stradale, e ormai versa in condizioni critiche. Il Comandante Unico fa comunque in tempo ad apprendere la bella notizia prima di morire, il 17 novembre 1945. A distanza di settant’anni da quel tragico incidente la morte di Canzi, così “provvidenziale” per i suoi avversari, è ancora al centro di polemiche, accuse, domande aperte. Da una parte la tempistica dell’incidente è strana, e un anno dopo anche Savino Fornasari, esponente di punta dell’anarchismo piacentino, perde la vita nello stesso modo. D’altra parte, però, gli incidenti automobilistici nel dopoguerra sono davvero frequenti.
Il funerale di Emilio Canzi viene celebrato da don Giovanni Bruschi, e dopo la cerimonia un imponente corteo accompagna il comandante anarchico a Peli, dove viene sepolto. Sui giornali viene pubblicata la sua celebre foto col fucile in spalla con un’ epigrafe bellissima, che ci riporta al suo cammino lungo e ininterrotto, silenzioso ma mai solitario, proprio come quello dell’anarchia: «Egli cammina ancora, come ha camminato tutta la vita, incontro ai suoi fantasmi luminosi e inquieti. Cammina sulla montagna di Peli, ed è sereno. Altri, intorno a lui, camminano con lo stesso silenzioso suo passo”
1 commento su “SL13 – L’alta via di Emilio Canzi”
ALESSIO LATINI
Mi congratulo con voi per le parole oneste in riguardo alla storica partecipazione degli anarchici alla Resistenza che dal ’20 osteggiarono per primi, pagando sempre di persona, l’arroganza dei governi monarchici, fascisti e dei padroni. L’opposizione degli anarchici al fascismo è stata istintiva e immediata fin dal primo momento. La partecipazione alla controversa esperienza degli Arditi del Popolo li vide per primi nell’organizzazione e adesione. Il confino patito, le carceri, l’esilio, la massiccia partecipazione degli anarchici italiani alla rivoluzione spagnola del ’36, la Resistenza armata contro i nazifascisti, furono le tappe principali dell’impegno antifascista libertario degli anarchici italiani e non solo. Ma il contributo anarchico, se ben ostacolato e minimizzato dai dirigenti stalinisti del partito comunista, alla Resistenza non si limitò solo alle azioni militari contro fascisti e nazisti. Ove possibile, i militanti anarchici, uomini e donne, si impegnarono nell’organizzare e difendere la vita delle popolazioni duramente colpite dalla barbarie e brutalità della guerra, istituendo spacci e cooperative di produzione e consumo, embrioni di quella società per la quale avevano lottato ed erano morti, più libera e giusta alla cui costituzione molti compagni e molte compagne, avevano dedicato la vita. Il comandante partigiano anarchico Emilio Canzi fu uno di questi. Viva la resistenza.
Mi congratulo con voi per le parole oneste in riguardo alla storica partecipazione degli anarchici alla Resistenza che dal ’20 osteggiarono per primi, pagando sempre di persona, l’arroganza dei governi monarchici, fascisti e dei padroni. L’opposizione degli anarchici al fascismo è stata istintiva e immediata fin dal primo momento. La partecipazione alla controversa esperienza degli Arditi del Popolo li vide per primi nell’organizzazione e adesione. Il confino patito, le carceri, l’esilio, la massiccia partecipazione degli anarchici italiani alla rivoluzione spagnola del ’36, la Resistenza armata contro i nazifascisti, furono le tappe principali dell’impegno antifascista libertario degli anarchici italiani e non solo. Ma il contributo anarchico, se ben ostacolato e minimizzato dai dirigenti stalinisti del partito comunista, alla Resistenza non si limitò solo alle azioni militari contro fascisti e nazisti. Ove possibile, i militanti anarchici, uomini e donne, si impegnarono nell’organizzare e difendere la vita delle popolazioni duramente colpite dalla barbarie e brutalità della guerra, istituendo spacci e cooperative di produzione e consumo, embrioni di quella società per la quale avevano lottato ed erano morti, più libera e giusta alla cui costituzione molti compagni e molte compagne, avevano dedicato la vita. Il comandante partigiano anarchico Emilio Canzi fu uno di questi. Viva la resistenza.