L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e brevi tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli impegnativi, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in ottima forma fisica. Nei periodi di precipitazioni intense (pioggia o neve) in alcuni tratti del percorso si possono formare depositi (fangosi o nevosi), ai quali occorre prestare molta attenzione. Si tratta di un percorso ad anello, che inizia e si conclude nel centro di Cerignale (dove è possibile parcheggiare). Il percorso si sviluppa inizialmente su un tratto contrassegnato esclusivamente dalla segnaletica del Museo della Resistenza, riportante il segnavia a stella con fondo bianco e bordo rosso. Raggiunto l’abitato di Casale, la segnaletica di riferimento diventa quella del CAI, percorrendo rispettivamente ampi tratti dei percorsi 135, 133 e 179 fino al rientro a Cerignale, con frecce in legno riportanti la stella bianca e rossa e la sigla SL14 a evidenziare bivi e i punti di passaggio tra i diversi sentieri CAI. Oltre alla partenza in Cerignale, sono presenti alcuni punti acqua lungo il percorso, situati vicino ai centri abitati di Casale e Cariseto.
Difficoltà Difficile Livello Escursionistico Lunghezza 16 km Durata 6 ore al netto delle soste
Inizio/Fine Cerignale (PC) Dislivello salita 1100 m Dislivello discesa 1100 m
Seguendo le orme di Surus, sulla confluenza tra Aveto e Trebbia.
Percorso ad anello che prende il via dall’abitato di Cerignale, suggestivo borgo di origine medievale. Il sentiero – ex CAI 135 – inizia a fianco del cimitero di Cerignale, situato alle spalle della chiesa di San Lorenzo. Seguendo la stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina ci si incammina lungo il fianco della montagna (rinominata Surus – “l’elefante di Annibale”- per il suo particolare profilo) da cui si aprono scorci incredibili sulle acque cristalline del Trebbia. Arrivati alla confluenza tra Trebbia ed Aveto è possibile scorgere l’abitato di Sanguineto, ove la Banda Gaspare muove i suoi primi passi prima di spostarsi nel maggio del ’44 a Cerignale. Il sentiero vira verso sud ed inizia una graduale ma costante salita che condurrà sino all’abitato di Casale, minuscolo borgo abbarbicato sulla montagna dove la strada asfaltata proveniente da Cerignale trova il suo termine. Giunti al paese si prosegue sul sentiero 135 andando dritti, dopo aver oltrepassato la piccola fontana posta all’interno del borgo. Passando tra castagni, faggi, tratti ombreggiati e zone rocciose si gioisce di splendide vedute della Val d’Aveto e, dopo aver attraversato una bella pineta, si raggiunge Cariseto. Il sentiero sfocia su strada asfaltata, se necessario è possibile raggiungere la fontana posta al principio dell’abitato e visitare le rovine del castello le cui prime tracce risalgono al X sec. Inoltre qui si trova l’unica stazione spontanea di Tasso comune della Val Trebbia e l’inconsueta fioritura dell’Elleborina piacentina, una rarissima orchidea endemica del nostro appennino. Dopo l’eventuale deviazione verso il borgo di Cariseto, si ritorna sui propri passi in direzione Cerignale e il percorso ritrova lo sterrato svoltando a sinistra nei pressi di una fonte lato strada, seguendo il sentiero CAI 133. Dopo meno di un chilometro si svolta a destra prendendo il sentiero CAI 179 in direzione “Camping Le Piane – Cerignale” che condurrà al Monte delle Tane. Qui la vista spazia dalle alte vette della Val Trebbia, con il Monte Alfeo ed il Cavalmurone a quelle che a oriente si profilano separando questa valle da quella del Nure: il Nero, il Maggiorasca, la Ciapa Liscia ed il Carevolo. Aggirato il Monte delle Tane, la cui cima si trascura perché ricoperta da una fitta boscaglia, si raggiunge un bivacco – la “casermetta” – presidio per l’avvistamento aereo utilizzato dai militari della DICAT (Milizia per la difesa contraerea territoriale) e poi abbandonato, una volta saputo dell’arrivo dei partigiani della Banda Gaspare. Il percorso prosegue all’interno di un rimboschimento di pini nel quale bisogna essere accorti per non smarrire il tracciato che a tratti risulta poco visibile. Dopo dieci minuti di cammino si raggiunge la magnifica radura di Selvarezza, ancora oggi luogo di pascolo per bovini e equini lasciati allo stato brado (potrebbe essere necessario prestare un po’ di attenzione). Qui si incontra l’ambiente tipico delle torbiere, con alcuni piccoli stagni praticamente asciutti in estate. Le fioriture di eriofori e callune si possono ammirare da un’area picnic attrezzata con tavoli e barbecue con griglia. Proseguendo sulla destra lungo un’ampia carrareccia si raggiunge il campeggio “Le Piane”. Il sentiero corre lungo il perimetro sinistro del camping al termine del quale si percorre una carrozzabile che in un quarto d’ora porta sulla Strada Provinciale 52. Attraversata la strada, il cammino prosegue a destra su sterrato seguendo il segnale dipinto su una grande pietra posta in prossimità di una cabina ENEL. Ormai giunti nell’abitato di Cerignale si costeggia l’antico mulino e, dopo una breve passeggiata tra le belle case in pietra del borgo vecchio, si raggiunge la piazza principale del paese. Se la stanchezza non è troppa si consiglia di visitare la bella Piazza dei Diritti e delle Tolleranze che richiama, con le sue installazioni e raffigurazioni, un importante messaggio di solidarietà.
A ferro e fuoco. L’occupazione italiana della Slovenia
Il 6 aprile 1941 la Germania di Hitler, presto seguita dall’Italia e dall’Ungheria, attacca la Jugoslavia, che riveste un ruolo importante nell’avanzata verso la Grecia e la Russia. Ben presto il paese balcanico capitola e viene spartito tra le potenze vincitrici. L’Italia conquista diverse regioni, che sceglie di amministrare in maniera differenziata. In Dalmazia crea un governatorato militare, in Montenegro instaura un regime collaborazionista, mentre le province slovene della Nostranjska, della Dolenjska e della Bela Krajna, contrariamente alle leggi di guerra, vengono annesse direttamente al territorio italiano e diventano la Provincia autonoma di Lubiana. Una scelta pratica, che permette agli occupanti di aggirare i trattati internazionali, per sfruttare liberamente le risorse slovene e attuare una repressione più dura. Tuttavia, questa manovra aggressiva raccoglie anche il forte razzismo che il fascismo aveva per anni propagandato contro gli slavi, considerati da Mussolini «razza barbara», culturalmente inferiore. Non a caso il movimento squadrista in Friuli-Venezia Giulia, il cosiddetto ‘squadrismo di confine’, era stato particolarmente violento e aveva colpito brutalmente le comunità slave e i loro simboli, come il Narodni Dom, la casa della cultura slovena a Trieste, data alle fiamme nel 1920. Nella neonata provincia di Lubiana si registrano da subito forti segnali di protesta. Pochi giorni dopo l’occupazione, nella capitale nasce un movimento di liberazione, l’Osvobodilna fronta (OF), il Fronte di Liberazione del popolo sloveno, che raccoglie uomini e donne di diversi orientamenti politici, molti dei quali avevano già combattuto nella Guerra di Spagna, a fianco di antifascisti da tutto il mondo che si erano schierati contro l’ascesa di Francisco Franco. Presto il movimento di liberazione cresce a dismisura. La resistenza dell’OF si espande anche nelle zone della Venezia Giulia a maggioranza slava annesse dall’Italia dopo la Prima guerra mondiale, come la Primorska, dove già operavano gruppi clandestini che si erano opposti alle violente politiche di italianizzazione forzata del governo fascista. Davanti al dilagare del ribellismo, i comandi militari italiani decidono di usare il pugno di ferro. L’intera città di Lubiana viene circondata di filo spinato, nel tentativo di tagliare i contatti tra i centri direzionali della lotta clandestina e le bande partigiane in montagna, diventando così un enorme campo di internamento dal quale è impossibile entrare o uscire senza permesso. Gli imponenti rastrellamenti dell’operazione ‘Primavera’ colpiscono partigiani e civili, i cui villaggi vengono saccheggiati e dati alle fiamme. Numerose, e ben documentate dalle fotografie e dalle cronache dell’epoca, sono le fucilazioni sommarie di ribelli e sospetti sostenitori della Resistenza. La ferocia di quell’operazione viene ben sintetizzata negli ordini dati dai generali. Mario Roatta, nella Circolare 3C, prescrive una particolare durezza contro i civili, che si riassume nella formula: «non dente per dente, ma testa per dente». Anche il generale di corpo d’armata Mario Robotti in una nota ai suoi comandi scrive «si uccide troppo poco!». Perfino Benito Mussolini si rivolge alle truppe chiedendo loro di non avere nessuna pietà: «So che siete dei bravi padri di famiglia ma qui non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori». Nel tentativo di evacuare le zone ad alta densità partigiana, i militari ricorrono inoltre alla deportazione di almeno 35.000 persone che vengono rinchiuse in campi di concentramento. I più importanti sono quelli di Rab/Arbe, in Dalmazia, dove muoiono di stenti 1252 uomini, donne e bambini; di Gonars, in Friuli; e di Renicci di Anghiari, in provincia di Arezzo. Nei campi italiani si perde la vita soprattutto per la fame e per il freddo, che uccide gli internati (soprattutto bambini) alloggiati in tende esposte ai rigori dell’inverno. Il 25 luglio 1943, con la caduta del Regime fascista, il sistema di occupazione italiano si sfalda velocemente. Pochi mesi dopo, alla proclamazione dell’Armistizio, i soldati di stanza nei Balcani cercano di fare ritorno a casa, ma molti vengono catturati dalle truppe tedesche, che presto occupano l’intera Jugoslavia. Non sono pochi, tuttavia, i casi di contingenti dell’esercito italiano che scelgono di allearsi con la Resistenza e combattere contro i nazisti. Ancora oggi, la partecipazione dell’Italia all’occupazione della Slovenia è oggetto di un’ampia rimozione dalla memoria storica nazionale. Nel dopoguerra la Jugoslavia ha denunciato alla War Crimes Commission 3798 criminali di guerra italiani, chiedendone a più riprese l’estradizione, che, però, è sempre stata negata. Molto velocemente, la memoria pubblica italiana si è stretta nel mito del ‘bravo italiano’, che male si accorda con la memoria slovena degli ‘italiani brucia case’, e che permette di minimizzare e non fare i conti con le pagine più sporche della nostra storia. La memoria della presenza italiana in Jugoslavia ha rimosso non solo l’occupazione e i suoi orrori, ma anche quello che c’era stato prima, come il feroce antislavismo fascista nelle zone di confine e l’italianizzazione forzata delle comunità slavofone della Primorska, saldandosi in una narrazione autoassolutoria e vittimista. Negli ultimi anni storiche e storici italiani e sloveni hanno cercato di indagare più a fondo la vicenda dell’occupazione italiana in Slovenia, alla ricerca di una memoria condivisa e dialogica. Uno dei risultati più importanti è la mostra virtuale ‘A ferro e fuoco’, curata dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea in Friuli-Venezia Giulia, dal quale abbiamo ripreso alcune fotografie.
Non è facile ricostruire la storia di Gaspare, comandante partigiano in alta Val Trebbia. La sua vicenda presenta ancora diversi punti d’ombra e si snoda tra le carte di diversi archivi, tra Italia e Slovenia. Gašper Čamernik nasce a Zaplana, un comune rurale e boscoso a trenta chilometri da Lubiana, nella Carniola interna. Le informazioni sulla sua infanzia e gioventù sono poche. Figlio di Janez e Marija Uhr, Gašper è ultimo di tre figli, e viene dopo Ivanka, che muore ancora bambina, e il fratello France. I Čamernik sono una famiglia della piccola borghesia terriera e il giovane Gašper può frequentare le scuole. Quando l’Italia fascista invade il suo paese è un uomo di ormai venticinque anni, un ufficiale dell’esercito, e ha appena perso il padre. Sicuramente si oppone all’avanzata nemica, prima di venire catturato e deportato insieme a molti connazionali. La sua destinazione è la provincia di Piacenza, dove molti comuni erano stati individuati come luoghi di internamento per i nuovi prigionieri croati e sloveni. Gašper si trova così a Ferriere, dove è costantemente controllato dai Carabinieri, ma manifesta da subito un carattere insofferente alle costrizioni e più volte abbandona il domicilio coatto. Nel maggio 1943, la caserma di Ferriere denuncia all’Alto Commissariato per la provincia di Lubiana che Gaspare ‒ come ormai tutti lo chiamano ‒ si è definitivamente allontanato dal comune. Il fuggitivo trova rifugio a Sanguineto di Corte Brugnatella, dove inizia a vivere alla macchia contando sulla solidarietà dei Bazzini, una famiglia del posto. Intanto a Zaplana la situazione precipita. Le forze militari al comando del generale Carlo Ghe assumono il controllo della zona. I funzionari pubblici vengono licenziati e i Consigli comunali aboliti per lasciare spazio a commissari italiani. Anche la geografia viene cancellata, in un tentativo di italianizzazione che vuole colpire l’identità e l’orgoglio degli sloveni. Vrhnika, la municipalità che comprende la cittadina di Gašper, diventa Nauporto; mentre la vicina Logatec, viene ribattezzata Longatico. La Resistenza inizia a raccogliersi intorno al combattente Jože Molek “Puntar”, mentre i civili vengono deportati in massa nel campo di concentramento di Visco, in provincia di Udine. Probabilmente Čamernik può solo intuire quello che succede a casa, ma non c’è da stupirsi se vive con entusiasmo la caduta del fascismo e il collasso dell’Italia in guerra. Subito Gašper inizia a raccogliere nei boschi di Marsaglia sbandati, renitenti, antifascisti e a compiere i primi attacchi. Dapprima disarma piccoli contingenti nazifascisti per procurarsi le armi, poi alza il tiro. Nel maggio 1944 la Guardia Nazionale Repubblicana segnala che a Rovaiola un nutrito numero di ribelli ha attaccato la Polizia Ausiliaria, ferendo tre agenti. Nello scontro, durato diverse ore, i partigiani hanno avuto la meglio, e sono riusciti a saccheggiare e distruggere la casa del Commissario prefettizio, e il negozio del Segretario del fascio. I primi successi aumentano la fama del comandante sloveno e sempre più ribelli si uniscono al suo gruppo. Alla fine di giugno i comandi provinciali fascisti segnalano che la banda Gaspare, ormai molto numerosa, ha preso possesso del paese di Cerignale, dove ha occupato le scuole e diversi edifici. I partigiani dispongono di molte armi, di diversi automezzi e di alcune mitragliatrici, con le quali ‒ dalla loro posizione sopraelevata ‒ presidiano la strada all’altezza della confluenza Aveto-Trebbia. I rapporti segnalano con stupore che nel gruppo sono presenti delle donne armate, che combattono al pari degli uomini. Insomma, i partigiani di Gaspare minacciano gli scambi nazifascisti tra Piacenza e Genova e incombono su Bobbio. Ma il loro percorso si fa sempre più difficile e tormentato. Velocemente le loro azioni si fanno sempre più ardite e spericolate e crescono gli afflussi di reclute. Tuttavia la popolazione fatica a dare ospitalità a un numero crescente di ribelli. Come altrove, inoltre, cresce la paura che i gruppi armati possano attirare sul paese l’occhio micidiale della repressione nazista. Ma soprattutto, con la veloce espansione della Resistenza, il modello organizzativo delle prime bande ‒ autonome, audaci, raccolte intorno a un capo carismatico ‒ entra in crisi. Cresce il peso dei partiti e dei comandi militari, che intendono uniformare e coordinare il movimento partigiano. Uomini come Gašper, insofferente alle direttive dall’alto e per di più straniero, vengono bruscamente messi da parte. Nel luglio 1944 i partigiani liguri comandati da Aldo Gastaldi “Bisagno” fanno irruzione a Cerignale, disarmano i combattenti di Gašper e li disperdono, si impossessano delle armi e del parco macchine. Čamernik e i suoi più stretti collaboratori vengono processati sommariamente e allontanati. Come spesso accade, l’accusa rivolta al gruppo è quella di non avere posto sufficiente attenzione al rapporto con la popolazione, di avere operato requisizioni sommarie. Un’imputazione forse parzialmente fondata ma pretestuosa, che consente ai partigiani della VI Zona ligure di controllare la valle, eliminando un uomo che con la sua fama avrebbe reso disagevole l’insediarsi in zona del nuovo gruppo e che, difficilmente, si sarebbe sottomesso al nuovo comandante. Gašper è costretto ad abbandonare l’alta Val Trebbia, la zona dove si era affermato come comandante leggendario e rispettato. Continua però a combattere, unendosi ai partigiani di Giuseppe Prati, in val d’Arda. Raggiunge poi la Val d’Aveto, dove si unisce alla 59a Brigata “Caio” di Ernesto Poldrugo “Istriano”. Anche lui viene dal confine orientale, è originario di Pola, città annessa all’Italia alla fine della Prima guerra mondiale, e forse capisce e accoglie Gašper, che combatte con lui fino alla liberazione. In quei giorni, il partigiano Gaspare sfila insieme ai suoi compagni per le vie di Genova liberata. Ma, come molti partigiani non italiani, il suo percorso nel dopoguerra è travagliato e contorto. Gašper richiede e ottiene il riconoscimento della qualifica di partigiano combattente e comandante di distaccamento, ma nelle carte il suo nome e il suo cognome vengono storpiati al punto da essere quasi irriconoscibili. Le tracce di Giamenik, o Giamernik, o Ciamenic, iniziano così a perdersi nei documenti. Dopo la guerra, Gašper diventa padre di due bambine, avute dalla compagna Rina Bazzini. Tuttavia l’inasprirsi del braccio di ferro per il controllo delle zone di confine fa crescere la diffidenza nei confronti degli slavi residenti in Italia, che vengono concentrati in campi di internamento. Gašper riesce probabilmente a sottrarsi a questa misura e fare ritorno in Jugoslavia. Qui viene a sapere della morte del fratello France, prelevato e ucciso in circostanze non chiarite. Per alcuni anni, il partigiano Gaspare cerca la sua strada nel suo paese, nel quale però si riconosce sempre meno. Negli anni Cinquanta lo troviamo nel campo di raccolta profughi di Opicina, dove si mescola agli italiani che lasciano le terre riannesse alla Jugoslavia dopo i trattati di pace. Qui Čamernik si mette in contatto con le autorità dell’Allied Military Government e, forse anche grazie ai suoi precedenti partigiani, riesce a ottenere un passaporto e un visto per l’espatrio. Al consolato brasiliano di Milano, dichiara di essere un operaio specializzato elettromeccanico, e di volere raggiungere Rio de Janeiro per cercare fortuna. Fino agli anni Settanta, continua a scrivere di tanto in tanto alle figlie rimaste in Italia, poi si perdono le sue tracce. La strada di Gašper Čamernik, che oggi guida i nostri passi, è stata dunque lunga, sofferta e sudata. Arrivato qui come disprezzato straniero, come appartenente a una razza considerata inferiore, ha saputo conquistare rispetto e onore, riappropriandosi del proprio destino. Proprio per provare a riempire i buchi di tante biografie di confine, inghiottite dalla guerra, dall’occupazione, dal razzismo antislavo e dall’italianizzazione forzata, abbiamo scelto come guide di questo sentiero partigiane e partigiani sloveni, le cui storie rimandano ad alcuni nodi della vicenda di Gašper/Gaspare, che giunto a Piacenza da prigioniero ha saputo diventare un uomo libero.