L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli medi, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in buona forma fisica. Si tratta di un percorso ad anello, che inizia e si conclude nel centro storico di Bobbio (dove è possibile parcheggiare). Nei periodi di precipitazioni intense (pioggia o neve) in alcuni tratti del percorso si possono formare depositi (fangosi o nevosi), ai quali occorre prestare molta attenzione soprattutto nei frangenti di maggior pendenza. Salvo alcuni riferimenti al Cammino di S. Colombano, non sono presenti altri segnavia. La segnaletica di riferimento sarà quindi quella a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina. Oltre alla fontana di piazza 25 aprile, alla partenza, e a quella del cimitero, non sono presenti altri punti acqua lungo il percorso.
Difficoltà Medio Livello Escursionistico Lunghezza 9 km Durata 3,5 ore al netto delle soste
Inizio/Fine Piazza 25 Aprile - Bobbio (PC) Dislivello salita 400 m Dislivello discesa 400 m
Sui passi di Bianca Ceva, simbolo di impegno e cultura antifascista
L’itinerario si sviluppa su viabilità secondarie che risalgono la valle del Torrente Dorbida e che permettono di mantenere sempre una preziosa prospettiva d’insieme su questo tratto di Val Trebbia, mantenendo un andamento lineare, che prevede salita nella prima parte e discesa nella seconda. La partenza è posta nel centro di Bobbio, in corrispondenza dell’ampio parcheggio in piazza XXV Aprile. Da qui si può prendere la strada asfaltata che sale in direzione ovest e che incrocia Via Garibaldi, che si imbocca in direzione nord, uscendo dal paese. Si supera il ponte sul Torrente Dorbida, si prosegue diritto sulla strada che esce dall’abitato mantenendo il marciapiede e lasciandoci alle spalle l’indicazione a sinistra per Lagobisione, imbocco del percorso SL15 – Il sentiero della Repubblica di Bobbio. Poco più avanti si prende la vecchia strada statale, il cui accesso è inibito ai mezzi a motore da una sbarra di metallo. Si cammina tra calanchi e sbiaditi segnali stradali del passato tracciato, con lo sguardo che cade sull’alveo del fiume Trebbia, sui vigneti e sui campi che disegnano il versante sud-est della città. Dopo circa un chilometro si raggiunge il cimitero comunale, dove Bianca Ceva è sepolta nella parte alta a sinistra del complesso. Riconoscibile lì vicino la “spada di fiamma”, il simbolo di Giustizia e Libertà. Ritornando brevemente sui propri passi, si può prendere il sentiero che sale nei campi posto poco prima del cimitero. In poco tempo si raggiunge la strada asfaltata che conduce a Lagobisione e che qui attraversa loc. Cognolo. Si prosegue su questa direttrice fino a svoltare in corrispondenza del bivio per le loc. Cascina, Mazzucca e Ca’ Borelli. Si raggiunge Ca’ Borelli dove termine l’asfalto e si imbocca la strada sterrata sud-ovest che passa a monte della Mazzucca, uno dei luoghi – insieme con la casa della famiglia Valla in via Garibaldi – dove Bianca Ceva trova rifugio una volta che su di lei viene emesse un mandato di cattura emanato dal Tribunale speciale fascista. Raggiunta l’elegante C. Vignola, si abbandona la strada che prosegue verso gli abitati di Pegni e Sarmase e verso la strada statale SS461 che sale verso il Monte Penice, scendendo sul sentiero segnato che ci porta in prossimità di C.na Morina e il “Torrione del Trebbia”, agriturismo che gode di una vista panoramica seconda a nessuno nella zona. Si prosegue la discesa verso valle tra i cascinali e si ritrova la strada asfaltata non distante da C. Balzago che ci riporta al bivio incrociato all’inizio in prossimità del ponte sul Torrente Dorbida, permettendoci così di rientrare comodamente verso piazza 25 aprile.
Con il fucile e con la penna. I giornali partigiani
I mesi della Resistenza segnano una riconquista dal basso della libertà di stampa. In tutta l’Italia settentrionale, sfidando divieti e arresti, gruppi antifascisti e brigate partigiane sentono la necessità di comporre e diffondere periodici. I fogli clandestini, ciclostilati o talvolta composti a mano, servono prima di tutto a comunicare informazioni militari e a diffondere messaggi politici. Inoltre, il giornale di brigata incentiva lo spirito di corpo e l’identità delle formazioni, che si sentono partecipi e coinvolte in una narrazione collettiva. Nel clima di controllo capillare dei media da parte del regime, la stampa clandestina fa anche un’opera di ‘controinformazione’, divulgando notizie censurate sull’andamento del conflitto e sulle reali condizioni di vita della popolazione. Per tutti questi motivi, il movimento partigiano destina molte forze e risorse alla stampa, che permette di uscire dal silenzio della clandestinità per comunicare con un pubblico più ampio, che legge, conserva e distribuisce i fogli partigiani correndo gravi rischi. Nell’Italia occupata, comporre, stampare e diffondere un giornale clandestino è un’impresa difficile e pericolosa. Le materie prime necessarie sono contingentate e controllate, le macchine stampatrici grandi e rumorose, e le tante persone coinvolte nel lavoro redazionale mettono a rischio la segretezza dell’organizzazione. Una soluzione parziale a questi problemi la si trova nell’estate 1944, quando i partigiani riescono a controllare ampie zone libere. Qui, accanto a ospedali, servizi, magazzini, sorgono anche tante redazioni e stamperie libere, che inondano sistematicamente l’Italia occupata di giornali partigiani, prima diffusi in maniera sporadica e frammentaria. Il trasporto e la distribuzione della stampa clandestina sono garantiti dalle donne, protagoniste della logistica partigiana, che affrontano lunghi viaggi con carichi pesanti e difficili da nascondere. La stampa viene poi consegnata a una rete di fiduciari o lasciata in luoghi strategici così che chiunque la possa notare e raccogliere. Passate di mano in mano, ricopiate, rielaborate per meglio adattarsi alle situazioni locali, le notizie viaggiano così di contrabbando, sfidando il monopolio fascista dell’informazione e mostrando capillare struttura organizzativa della Resistenza. Dalle colonne della stampa partigiana prende il via a una grande operazione di educazione popolare, di pedagogia democratica, che coinvolge soprattutto i giovani cresciuti nella propaganda di regime. Nelle bande partigiane, i giornali vengono letti collettivamente e commentati, grazie alla presenza dei commissari politici, avviando un primo confronto sul passato e sul futuro del Paese. Sulle pagine della stampa clandestina si denunciano i crimini e i limiti del fascismo, si consolidano le prime narrative del movimento partigiano (come la biografia esemplare ed eroica del gappista Dante di Nanni), e si diffondono i discorsi programmatici dei dirigenti dei partiti antifascisti. Anche lo stile comunicativo utilizzato segna una presa di distanza dal fascismo. Alla retorica enfatica del regime si oppone uno stile amichevole, quasi come una chiacchierata a tu per tu con un amico o con un giovane allievo. Non di rado il tono è scherzoso, e riprende momenti gioiosi e divertenti della vita di banda, che aggiungono una nota di speranza ai tragici bollettini dei necrologi. Molte pubblicazioni si rivolgono a pubblici specifici: i partigiani di una particolare brigata, gli operai, gli studenti. Al pubblico femminile è indirizzato “Noi donne”, periodico dei Gruppi di difesa della donna, che indicazioni per l’organizzazione di rivolte e manifestazioni antifasciste, oltre a portare avanti proprie battaglie emancipazioniste per il diritto di voto e la parità. Nel complesso, la stampa clandestina è fondamentale nel “farsi” del movimento partigiano. Pagina dopo pagina, tante piccole azioni di guerriglia tracciano l’immagine di un movimento imponente, coordinato e organizzato, intorno a ideali diversi ma convergenti.
Un grido di libertà. Stampa clandestina in Val Trebbia
Tra il 7 luglio e il 27 agosto del 1944 la Val Trebbia è il cuore di un’importante esperienza di autogoverno partigiano, ricordata come Repubblica di Bobbio. Nei cinquantadue giorni della Repubblica, la città ‒ già dal medioevo centro editoriale e amanuense ‒ diviene la capitale della stampa clandestina. Nella tipografia Repetti vengono composti e stampati ‘Il Garibaldino’, giornale delle formazioni comuniste dell’Oltrepò pavese, e soprattutto ‘Il Partigiano”, organo della 3ª Divisione Garibaldi “Cichero”. Curato da Giovanni Serbandini “Bini”, poi editorialista de ‘l’Unità’ e deputato, ‘Il Partigiano’ propone contenuti particolarmente creativi e innovativi. Diffonde i testi di canti partigiani, dedica spazio alla poesia e alla letteratura e ‒ grazie ad alcuni disegnatori che girano di distaccamento in distaccamento ‒ pubblica vignette che ritraggono momenti della vita di banda e caricature di ribelli e comandanti. Nella tipografia Bellocchio viene invece composto ‘Il Grido del popolo’, periodico delle formazioni gielliste piacentine. Curato da un gruppo di giovanissimi redattori guidati da Marco Roda “Edo”, studente di giurisprudenza sfollato a Bobbio, il giornale ha un ruolo importante nel cementare l’identità politica e militare della Divisione Giustizia e Libertà guidata da Fausto Cossu. Una formazione di stampo badogliano e autonomo, caratterizzata dall’apoliticità e dall’estrazione militare dei suoi dirigenti, che però nell’estate 1944 aderisce al Partito d’Azione, probabilmente più per mettersi al riparo dalle ingerenze comuniste che per una reale adesione agli ideali giellisti. É Leonida Patrignani “Bandiera”, delegato di Ferruccio Parri, a suggerire a Fausto di creare una nuova fonte di educazione politica, capace di divulgare idee e immaginari e di cementare l’identità di corpo di una formazione molto ampia. Il giornale può contare sull’esperienza e sulla cultura di Bianca Ceva, docente antifascista, che si nasconde a Bobbio per sfuggire a una condanna del Tribunale speciale. Laureata in Lettere e in Filosofia, Bianca è la sorella del noto Umberto, uno dei primi attivisti del movimento giellista, suicidatosi in carcere nel 1930. Sul ‘Grido’ Bianca scrive camuffandosi sotto gli pseudonimi Ics o Nadir, e utilizza un linguaggio semplice per spiegare ai giovani partigiani e alla popolazione delle valli gli ideali del socialismo liberale che già da anni animavano il movimento di Giustizia e Libertà. Grazie ai suoi contatti, Ceva riesce a portare ai patrioti piacentini un breve saluto del filosofo Benedetto Croce, che viene pubblicato sul foglio clandestino, diffuso in tutto il Piacentino. Oltre alle idee che guidano la lotta, il periodico dà notizia di tante azioni militari che ‒ giorno dopo giorno ‒ mostrano tutta la potenza militare e la diffusione geografica della formazione. Sul “Grido” vengono pubblicati i proclami del comandante Fausto, che richiama i suoi alla disciplina e alla responsabilità. Si diffondono inoltre le prime cronache di battaglie e azioni poi divenute leggendarie, come la battaglia del Monticello di Gazzola. Si tracciano i profili dei caduti, come quello di Alberto Araldi “Paolo” o di Lino Vescovi “Valoroso”, ai quali sono dedicati diversi articoli e poesie. Si denuncia la condotta di guerra nazista e fascista, che colpisce civili innocenti, come nell’eccidio di Strà. La direzione di Bianca Ceva contribuisce in maniera determinante all’indirizzo politico del giornale che, prima del suo arrivo, può avvalersi soltanto di collaboratori inesperti e molto giovani, tra cui i due nipoti della docente: Edoardo e Lucio Ceva Valla. Tuttavia, negli ultimi mesi del conflitto, mentre aumenta la corsa ai posti di potere, la direzione del giornale partigiano della più nutrita formazione partigiana piacentina diventa ambita, e Bianca viene rimossa dall’incarico. Nonostante la grande delusione, Bianca Ceva continuerà a impegnarsi nel mondo della cultura, sarà a lungo direttrice dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, e scriverà numerosi volumi sulla storia dell’antifascismo e della Resistenza. Manterrà contatti con Bobbio, dove sceglierà di essere sepolta.