L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e brevi tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli medi, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in buona forma fisica.
Nei periodi di precipitazioni intense (pioggia o neve) in alcuni tratti del percorso si possono formare depositi (fangosi o nevosi), ai quali occorre prestare molta attenzione.
Si tratta di un percorso ad anello che inizia e si conclude in loc. Casa Monte Bogo di Travo (dove è possibile parcheggiare lato strada).
Sono presenti alcuni segnavia relativi al Trail delle Pietre (che corre in parte sul vecchio sentiero 101 del CAI), tuttavia il riferimento principale è la caratteristica segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina. Non sono presenti punti acqua sul percorso, ma è possibile rifornirsi presso una fontana posta prima dell’abitato di Scarniago, raggiungibile con una breve deviazione dal tracciato.
Difficoltà Medio Livello Escursionistico Lunghezza 7 km Durata 2,5 ore al netto delle soste
Inizio/Fine Loc. Casa Monte Bogo, Travo (PC) - Loc. Casa Monte Bogo, Travo (PC) Dislivello salita 300 m Dislivello discesa 300 m
L’itinerario non si sviluppa con un andamento lineare e prevede tratti in discesa e tratti in salita in maniera alternata per tutto il percorso.
La partenza è posta a Casa Monte Bogo, in corrispondenza di un ampio spiazzo posto prima di una sbarra che delimita una proprietà privata, dove è possibile parcheggiare. Si scende per il sentiero in direzione est, fino a raggiungere tramite una strada sterrata l’abitato di Scarniago, immergendosi sin da subito nel paesaggio appenninico.
Da qui in avanti si tiene la strada asfaltata fino a Madellano, dove le ampie aperture verso est permettono di assumere preziose prospettive sulle pietre Perduca e Parcellara, così come sulla media Val Trebbia e sulla Val Perino, fino al crinale con la lontana Val Nure. Tra le cime più prossime si possono scorgere i monti Dinavolo, Barbieri e Armelio, mentre con lo sguardo e con la memoria possiamo puntare il Passo del Cerro e il Monte Osero, teatri di altri significativi scorci di Resistenza Piacentina.
Raggiunto Madellano, si prende la strada sterrata che corre in direzione nord-ovest, che permette di riprendere quota.
Appena prima del piccolo nucleo di case Boschi si tiene la sinistra in direzione ovest fino a Casa Sanese, il quartier generale del comandante Fausto Cossu.
Da qui si prosegue per la strada sterrata in direzione sud e si prende il tratto che sale nel bosco, fino a recuperare la traccia che corre sul vecchio sentiero 101 del CAI in direzione ovest, fino a tornare al punto di partenza.
Le Brigate partigiane “Giustizia e Libertà” nascono per iniziativa del Partito d’Azione, un piccolo partito che nasce negli anni Quaranta raccogliendo diverse anime dell’antifascismo liberale e democratico. Quando cade il Regime fascista, gli azionisti si dimostrano da subito molto risoluti a passare all’azione. In tutta l’Italia centro-settentrionale nascono bande dai nomi diversi, che si ispirano al Risorgimento, alle tradizioni repubblicane, a noti antifascisti come i fratelli Rosselli. Nella primavera 1944 vengono raccolte in modo unitario e organizzato sotto il comando di Ferruccio Parri “Maurizio”, e chiamate in modo uniforme “Giustizia e Libertà”, riallacciandosi a un movimento clandestino che aveva dato parecchio filo da torcere all’Ovra. Il loro simbolo è un pugnale di fiamma, simbolo della congiura libertaria e della combattività, e il loro motto è “Insorgere, risorgere”. I partigiani giellisti (o almeno i loro dirigenti) sognano una “rivoluzione democratica” che spazzi via non solo il fascismo, ma anche le forze conservatrici che lo avevano reso possibile. Sono “riformisti radicali”, che pensano a un’Italia libera repubblicana, laica e federalista.
Alla Liberazione, i giellisti rappresentano circa il 20% delle forze partigiane, e appartengono spesso alla piccola borghesia: sono professionisti, ingegneri, avvocati, intellettuali e studenti universitari. Anche grazie alla loro cultura sono capaci di costruire ottimi rapporti con gli Alleati, che li considerano interlocutori affidabili, combattivi e lealmente democratici. Diversamente da cattolici e comunisti, il Partito d’Azione non ha un seguito particolare tra le masse, ma può contare sulla personalità carismatica, intelligente e preparata di diversi dirigenti di valore, che scrivono (metaforicamente ma anche letteralmente) alcune delle pagine più belle della Resistenza. Negli organismi unitari della Resistenza, i giellisti sono comandanti e dirigenti a fianco dei comunisti, con i quali collaborano volentieri al di là delle differenze ideologiche.
Importanti brigate gielliste sorgono nelle impervie valli del Cuneese, grazie a personaggi come Duccio Galimberti “Tancredi”, Dante Livio Bianco, Giorgio Bocca e Nuto Revelli, coadiuvati dalla città da dirigenti politici del calibro di Vittorio Foa e Alessandro Galante Garrone. A Firenze i giellisti danno vita a Radio Cora, importante servizio di collegamento radio con gli Alleati, prima di venire scoperti e torturati dalla Banda Carità. Anche a Bologna si trovano gruppi giellisti organizzati da personalità di rilievo, a partire da Mario Jacchia, comandante partigiano delle formazioni di Piacenza, Parma e Reggio Emilia, che viene catturato e ucciso.
Anche grazie a persone come lui, il Partito d’Azione riesce a conquistare credito e prestigio tra i partigiani. Il primo governo dell’Italia liberata, nominato dai partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, è guidato proprio da Ferruccio Parri. Tuttavia, alle elezioni del 1946, il Partito d’Azione ottiene pochissimi voti. Come ha scritto lo storico Giovanni De Luna, i giellisti non riescono a trasformare i fucili in tessere, a passare dalla militanza partigiana alla militanza di partito. Le diverse correnti dell’azionismo, unite soprattutto dalla lotta al fascismo, finiscono per non trovare più un collante comune, e decidono di sciogliere il Partito. Eppure, la Resistenza giellista riesce a lasciare tracce profonde. Molti membri della classe dirigente dell’Italia repubblicana provengono dalle fila delle Brigate Giustizia e Libertà. Diversi intellettuali azionisti raccontano la Resistenza in modo vero e spontaneo. A partire da Luigi Meneghello, giellista nel Vicentino, che narra la storia dei “piccoli maestri”, partigiani che sanno combattere ma anche discutere di letteratura, e non si pensano tanto come eroi ma come giovani uomini e donne pieni di dubbi, paura e tanta ironia. Giovani con grandi sogni di cambiamento, che nel dopoguerra rimangono delusi. Meneghello scrive: «Era un niente, in quei giorni, avviare la rivoluzione. L’Alto Vicentino avrebbe preso fuoco in poche ore. Bastava pensarci. Se c’è un comitato, nell’aldilà, che giudica e registra i meriti patriottici, questa non ce la perdoneranno mai». La visione della Resistenza come “occasione mancata” per mettere in atto un cambiamento radicale è condivisa da molti giellisti nel dopoguerra, ed è ripresa negli anni Settanta dai giovani della sinistra extra-parlamentare. Sono loro a dare il via ad una riscoperta della storia delle Brigate “Giustizia e Libertà” e degli azionisti, ammirati come simbolo di rigore morale e coerenza antifascista, in contrasto con i partiti di massa, accusati di avere tradito gli ideali della Resistenza.
In effetti, i partigiani giellisti e i loro scritti mantengono un fascino costante. Se cattolici e comunisti si sono raccontati come parte di un movimento di massa, i giellisti hanno sempre parlato di sé come individui, e le loro speranze, le loro inquietudini e i loro sogni perduti sanno parlare all’anima più profonda di ognuno di noi.
La storia della Divisione Piacenza, la più grande formazione partigiana giellista dell’Emilia-Romagna, ci permette di guardare a fondo la complessità e le contraddizioni del Partito d’Azione.
La brigata nasce alla cascina Alzanese, per tutti “la Sanese”, nascosta sulle colline tra Val Trebbia e Val Luretta. Lì abita Remigio Albasi, ribelle contadino, antifascista e disertore fin dal 1940, che all’indomani dell’armistizio inizia a dare rifugio a ex prigionieri e militari in fuga. Tra loro un gruppo di carabinieri, guidati dal tenente sardo Fausto Cossu, che inizia ad attirare nuove reclute, soprattutto giovani contadini che non vogliono unirsi alla Repubblica di Salò e carabinieri disertori, che affluiscono dalle caserme vicine. La banda ha le carte in regola per diventare una grande Brigata: Remigio conosce il territorio e i suoi abitanti, Fausto ha una formazione militare e sa come organizzare le cose. Da subito inquadra gli uomini, si dota di un servizio sanitario e di un’intendenza, fa valere in modo deciso la sua autorità, aggrega comandanti temerari e di valore. Alberto, Ballonaio, Valoroso, Italo, Virgilio: tutti nomi che diventeranno leggendari nelle valli, tutti uomini ai quali Fausto, da buon leader, sa dare spazio e autonomia. L’orientamento di Fausto è inizialmente cauto, e i contatti con il Cln di Piacenza non sono dei migliori. Fausto Cossu è un militare, e non vede di buon occhio quei politici del Comitato di Liberazione che pretendono di dirgli cosa fare. Più volentieri dialoga con i servizi di intelligence italo-alleati, tramite i quali ottiene alcuni aiuti e contatti. Nel giugno 1944, la banda partigiana di Fausto conta un centinaio di uomini e decide di chiamarsi “Compagnia Carabinieri Patrioti”. È una formazione tipicamente “badogliana” o “autonoma”, caratterizzata dall’estrazione militare di molti dei suoi componenti e dall’organizzazione rigida.
Pochi mesi dopo però, Fausto sceglie di avvicinarsi al Partito d’Azione, e rinominare la Brigata “Giustizia e Libertà”, anche se le idee monarchiche e conservatrici di Cossu e di molti dei suoi carabinieri partigiani si conciliano male con i programmi rinnovatori e repubblicani del PdA. Questa adesione anomala e inaspettata trova le sue ragioni in una moltitudine di eventi che si accavallano a ridosso della primavera-estate 1944. Dopo l’eliminazione della banda di partigiani comunisti di Giovanni Molinari “Piccoli”, Cossu ha bisogno di una solida protezione politica che lo metta al sicuro dalle ingerenze del Pci. In quegli stessi mesi i vertici del Partito d’Azione stanno cercando di conquistare posizioni in Emilia-Romagna, regione dove l’iniziativa resistenziale è per la stragrande maggioranza in mani comuniste. La volontà di Fausto di porsi in maniera netta e inequivocabile fuori dal campo del partigianato rosso si incontra con la speranza dei giellisti di trovare nella bianca Piacenza un terreno fertile per gettare nuove basi per il dopoguerra. Questo può apparire paradossale se si pensa che il Partito d’Azione in provincia era molto debole, e non era nemmeno rappresentato nel Cln.
Nella svolta di Fausto non è indifferente, inoltre, la presenza a Bobbio, capitale della Val Trebbia, di legami esili ma profondi con il giellismo. Con le formazioni di Fausto dialoga una delle donne di punta del Partito d’Azione, Bianca Ceva, bobbiese d’adozione, che si pone come intellettuale di riferimento del gruppo di carabinieri, e principale redattrice del giornale della Brigata. La famiglia Ceva è molto conosciuta in valle, e Umberto, il più noto martire della cospirazione antifascista giellista, è sepolto al cimitero di Bobbio. Il nome dei Ceva, la personalità di Bianca, contribuiscono a dare alla formazione di Fausto un’impronta e una riconoscibilità giellista.
La Brigata GL diventa presto Divisione, una divisione partigiana che controlla metà della provincia e spezza il monopolio garibaldino sulla Resistenza in tutta la Regione. Si tratta di una formazione combattiva, con punte avanzate, che effettua spesso puntate in città e nelle polveriere in pianura, che preleva e uccide alcuni dei vertici del fascismo a Piacenza, e a sprazzi controlla e amministra una vasta zona libera nell’estate. Nell’inverno dei grandi rastrellamenti la Divisione è la prima ad essere investita dall’impatto delle truppe nazi-mongole, e si disperde momentaneamente, ma non si arrende. Per dimostrare che la Resistenza non era del tutto sconfitta, il vicecomandante della Brigata Alberto Araldi “Paolo” decide di scendere in città e uccidere il Capo della Provincia nominato dalla Rsi. Scoperto a causa di una delazione, viene fucilato al cimitero di Piacenza. Dopo il rastrellamento la Brigata “Giustizia e Libertà” si riorganizza e abbandona ‒ come tutte le formazioni della Resistenza ‒ la connotazione politica, e diventa la Divisione Piacenza. Alla Liberazione la Divisione giellista anomala di Fausto è la più numerosa della Provincia, con oltre 3000 partigiani combattenti.