SL2 – Attacco alla caserma

L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e brevi tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli medi, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in buona forma fisica.

Nei periodi di precipitazioni intense (pioggia o neve) in alcuni tratti del percorso si

possono formare depositi (fangosi o nevosi), ai quali occorre prestare molta attenzione.

Si tratta di un itinerario ad anello con partenza e rientro da loc. Dadomo di Vernasca (dove è possibile parcheggiare lato strada).

L’itinerario si snoda interamente su percorsi CAI, sviluppandosi inizialmente sul percorso CAI 925 fino in loc. Luneto, per poi spostarsi successivamente sul percorso 927 – salvo per un brevissimo tratto una volta giunti a Vezzolacca. Da lì, il rientro avviene incrociando inizialmente il percorso 923 e poi percorrendo un ampio tratto di 921 fino a Dadomo. Per quasi tutto l’itinerario saremo accompagnati dai segnavia CAI, mentre la segnaletica posta dai volontari del Museo della Resistenza, contrassegnata da una stella con fondo bianco e bordo rosso, indicherà i punti di passaggio tra i diversi sentieri CAI

Sono presenti alcuni punti acqua e pubblici esercizi, situati nei centri abitati che il sentiero attraversa, Luneto e Vezzolacca.

Difficoltà
Medio
Livello
Escursionistico
Lunghezza
10 km
Durata
4 ore al netto delle soste

Inizio/Fine
loc. Dadomo di Vernasca (PC)
Dislivello salita
600 m
Dislivello discesa

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Da Settesorelle a Luneto, sulle orme dei partigiani dello “Slavo”.

Il sentiero ci permette di ripercorrere idealmente i passi dei ribelli guidati da “Giovanni lo Slavo”, che attaccarono la caserma di Luneto il 24 Febbraio 1944. Si tratta di un classico percorso ad anello, con una piccola deviazione andata/ritorno nella parte centrale. Si parte da Settesorelle, più precisamente da località Dadomo, risalendo per qualche centinaio di metri Via Bertollo su strada asfaltata in direzione Bore, per poi prendere un sentiero a sinistra contrassegnato dalla segnaletica SL2 del Museo della Resistenza Piacentina. Si risale nel bosco su una ripida mulattiera fino a giungere ad un bosco di grandi piante di castagno, dove si aprono ampi spazi e avvallamenti. Arrivati ad un bivio si abbandona l’anello seguendo la caratteristica segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina e si gira a destra, arrivando rapidamente a Luneto, dove un tempo sorgeva la caserma della GNR, obiettivo dell’attacco partigiano. Sull’incrocio si trova l’Albergo Ristorante “Verdi”. Si ritorna quindi sui propri passi fino riprendere il percorso ad anello proseguendo a destra, sempre seguendo la segnaletica del Museo della Resistenza Piacentina. Dopo una breve tragitto si giunge in un punto panoramico dove sorge una croce, da cui si può ammirare la valle sottostante e il lago della diga di Mignano. Si scende quindi una ripida discesa ghiaiosa e poi inoltrandosi nel bosco, fino a raggiungere la frazione di Vezzolacca, dove si trova un altro esercizio pubblico, l’”Ostello degli Elfi”. Attraversando quindi il caratteristico paesello si riprende il cammino seguendo il sentiero CAI  923 e poi 921, che correndo in costa nel bosco ci riporta sotto la chiesa di Settesorelle. Si gira a sinistra e si risale seguendo il sentiero che ricalca, ma in direzione opposta, una parte della traccia del SL1, fino a ritornare a Dadomo, al punto di partenza.

Una giornata da partigiani. La vita quotidiana nelle bande

Quando scende in piazza per le sfilate post-liberazione, la Resistenza è ormai un movimento complesso, articolato in brigate e divisioni. Tuttavia, malgrado le strategie di unificazione ‒ con la creazione di vari Comandi unici ‒ la banda rimane sempre la principale protagonista della guerra partigiana. Sorte come piccole aggregazioni più o meno precarie, composte da individui diversi e sorrette da idee e propositi vari, le bande si aggregano spontaneamente nell’autunno 1943 sui rilievi appenninici e alpini. Sono composte in genere da alcune decine di ribelli, che si riconoscono intorno a un capo carismatico, che gode della fiducia e del rispetto dei suoi uomini, e dal quale di solito la banda prende il nome. È stato soprattutto lo storico Guido Quazza, negli anni Settanta, a parlare delle bande come ‘microcosmi di democrazia diretta’, dove l’autorità del comandante esiste fino a che gli uomini sono disposti a riconoscergliela e a combattere per lui. Oggi sappiamo che non sempre è così: in diversi casi chi non accetta la leadership di un capo ambizioso è allontanato dal gruppo prima di poterla rimettere in discussione, e non di rado ‒ specie con la partitizzazione della Resistenza ‒ vengono calati dall’alto capi in grado di dare precise garanzie di affidabilità politica. Ciononostante, è indubbio che alla base del fascino che l’esperienza partigiana ha esercitato su tanti di noi, al cuore pulsante della lotta, ci sia l’idea (certo forse un po’ astratta e romanzata) della banda partigiana, come luogo di libertà e uguaglianza. Pensiamo a Luigi Meneghello, quando ne I piccoli maestri, racconta le giornate della Liberazione e il primo incontro con gli uomini dell’ottava armata britannica. Quando un ufficiale inglese si affaccia dal carro armato e chiede al protagonista chi sia, lui risponde: «Just a fucking bandit». La vita illegale, da banditi, che si sperimenta nella banda è per molti ‒ specialmente i più giovani ‒ una molla che spinge a unirsi a quella che in un primo momento sembra una grande avventura.

Eppure, almeno fino agli anni Settanta, la Resistenza è stata letta principalmente come un fenomeno politico e militare, lasciando sullo sfondo la sua dimensione antropologica, psicologica, emotiva. Nei primi anni dopo il conflitto spesso si parla dei partigiani come eroi, oscurando e in parte rimuovendo, la loro natura di donne e di uomini in carne ed ossa.

Quindi, al di là di ogni retorica, quali sono i riti quotidiani e spesso dimenticati della giornata di un partigiano?

L’ingresso nella banda, l’iniziazione, è generalmente segnata dalla scelta (o dall’assegnazione) del nome di battaglia, con il quale un nuovo arrivato è accettato a pieno titolo nella comunità. Come ha notato Angelo Del Boca, i nomi partigiani servono a nascondere l’identità ma allo stesso tempo rivelano qualcosa di chi li porta: caratteristiche fisiche, abilità, tratti caratteriali, idee politiche, letture. Imposti dai pericoli della clandestinità, i nomi di battaglia ci rivelano però qualcosa del mondo partigiano. Alcuni suonano come delle prese in giro, e richiamano un certo clima cameratesco e spensierato, altri rimandano agli immaginari di chi sceglie di unirsi alle bande: il Risorgimento, l’antica Roma, la Bibbia, ma anche storie brigantesche (come quelle di Fra Diavolo) o avventurose ed esotiche, abitate da Tarzan, da corsari e pirati, da indiani e cow-boys.

La coesione, l’identificazione con il gruppo, l’amicizia, crescono poi grazie alla condivisione della quotidianità, specie se aspra e difficile. Si condivide il poco cibo, si condividono le sigarette intorno al fuoco, e intanto si parla, si racconta, ci si confronta. È un momento di pedagogia politica più informale e leggero rispetto a quello organizzato, soprattutto nelle brigate comuniste, dai commissari politici. Più tardi, quando sarà disponibile, si sfoglierà insieme la stampa partigiana, che non a caso è ricca di burle, caricature, testi di canzoni: tutti pensati per una fruizione collettiva dell’informazione. Quando il freddo si fa sentire capita anche di condividere il giaciglio e dormire, come scrive la partigiana Carla Capponi, «come cuccioli uno vicino all’altro». Sicuramente l’inedita intimità che si deve per forza instaurare tra uomini e donne nella banda non può che essere dirompente, ma c’è di più. La condivisione delle cose più comuni diventa, all’interno della banda partigiana, uno straordinario veicolo di egalitarismo, che appiana per un po’ non soltanto le differenze di genere, ma anche quelle geografiche e di classe sociale. Come rivelano molti racconti e diari, la socialità è un aspetto fondamentale dell’esperienza resistenziale: vivere insieme significa anche attingere a una dimensione di allegria, amicizia, spensieratezza che aiuta a superare la paura e le difficoltà materiali, e che dopo la guerra viene rimpianta e guardata con nostalgia. Nonostante spesso si faccia fatica a dirlo, per pudore o per paura di incrinare il mito di una Resistenza senza macchia, nelle bande ci si innamora anche. Non sono rari i ‘matrimoni in brigata’, celebrati dal comandante, come quello ritratto nell’omonimo racconto di Renata Viganò. E non è un caso neppure che uno dei più bei volumi sulla Resistenza, Una questione privata di Beppe Fenoglio, si concentri sui pensieri ossessivi e urgenti di Milton, un partigiano innamorato.

Emozionante e straordinaria, la quotidianità partigiana è ben altra cosa rispetto alla quotidianità che si respira nel dopoguerra, quando la normalità tanto sognata e desiderata fa sentire la noia e la malinconia. Scrive la partigiana Alba de Céspedes: «L’amore che avevo portato ardentemente durante il passaggio della linea del fuoco e durante la superiore solidarietà generata dallo spirito della Resistenza incominciava a raffreddarsi al contatto con la vita di tutti i giorni, tornata ad essere banale e compromissoria».

Insomma, a fare di una banda partigiana un gruppo coeso non sono solo le idee, ma anche la condivisione di momenti difficili e di momenti spensierati, delle difficoltà, delle paure e dei sentimenti.

Le giornate dei partigiani sono scandite dalla necessità di far fronte a esigenze concrete e prosaiche: trovare cibo, vestiti, medicine, materiali di sopravvivenza. Spesso di questi compiti sono incaricate le donne, che si trovano a cucinare, pulire, rammendare per distaccamenti composti da decine di combattenti. Man mano che il movimento partigiano cresce, questi compiti diventano più gravosi, e nascono le intendenze, proprio per riuscire a organizzare il reperimento e la distribuzione dei viveri, che poi sono in genere le donne a cucinare. Non è un caso quindi che i racconti delle donne ‒ attenti agli aspetti più minuti e pratici della vita partigiana ‒ abbiano contribuito in maniera fondamentale a smitizzare la Resistenza, offrendoci uno sguardo attento alla eccezionale quotidianità delle giornate passate in banda.

Alla caserma!

I primi obiettivi delle bande partigiane, quando scelgono di passare all’azione, sono i presidi periferici della Repubblica sociale, in molti casi vecchie caserme dei carabinieri. Questi attacchi hanno molteplici scopi: permettono di procurarsi armi, ma anche di affermare il proprio controllo sul territorio, eliminando qualsiasi stabile presenza armata fascista. Inoltre, questi primi attacchi ‒ specie se vittoriosi ‒ cementano per sempre l’identità della banda. Si misura definitivamente il valore e il coraggio dei membri del gruppo, si afferma il proprio coraggio, e il nome della banda e del suo leader si diffondono velocemente di bocca in bocca. Specialmente nelle zone di montagna, comunque, la presa della Rsi non è molto salda, e spesso gli attacchi consistono nell’affrontare pochi carabinieri, magari meglio armati ma sfiduciati e atterriti dalla possibilità dell’accerchiamento.

È questa la cornice entro la quale possiamo leggere l’episodio al quale è dedicato il percorso SL 2, pensato e progettato da Franco Sorenti per ripercorrere le orme e i racconti del padre Giacomo, partigiano ‘Pipòla’.

Il sentiero parte da Settesorelle, base della banda di ribelli guidati da Jovan Grcvaz, ufficiale slavo nato a Risan (nell’odierno Montenegro) nel 1910. All’indomani dell’8 settembre 1943, Jovan, prigioniero nel campo di concentramento PG 26 di Cortemaggiore, era riuscito a fuggire con alcuni compagni e si era nascosto nei boschi della Val d’Arda. Ben presto il nome di Giovanni lo Slavo inizia a essere conosciuto, e intorno all’ufficiale slavo inizia ad aggregarsi una banda. Negli stessi mesi altro gruppo, composto da giovani studenti e antifascisti di Fiorenzuola, si ritrova nelle stesse zone, guidato da Luigi Bigna “Tito”. Sia sul gruppo di Giovanni che su quello di Tito incombe la presenza dei carabinieri della caserma di Luneto, incaricati della ricerca dei renitenti e dei disertori nella zona. Nella notte del 23 febbraio 1944 le bande attaccano congiuntamente la caserma. Il primo obiettivo sono le armi, ma i ribelli confidano di potersi anche procurare coperte, materassi, vettovaglie. Per questo prendono in prestito alcuni muli, sui quali contano di caricare i materiali recuperati, e percorrono la strada tra Settesorelle e Luneto carichi di grandi speranze. In realtà, l’azione militare si risolve in una scaramuccia. Quando viene intimato loro di arrendersi e uscire, i carabinieri sparano, e dopo alcuni colpi i partigiani sono costretti a fare ritorno alla base. È una situazione comune a tutta l’Italia partigiana. Spesso questi primi attacchi sono male organizzati e coinvolgono pochi uomini male armati, ma dimostrano tutto lo slancio di bande sempre più coese, risolute, decise a passare all’azione. Dunque, pur rivelandosi un insuccesso dal punto di vista militare, l’attacco ha un grande peso psicologico. Si tratta di una delle prime azioni coordinate contro un presidio della Rsi, e tutti ne parlano per giorni. Si amplificano le voci che l’alta Val d’Arda pullula di ribelli, e che ci sono capi coraggiosi che stanno organizzando la guerriglia. Gli afflussi aumentano, le autorità fasciste non si sentono più al sicuro e decidono di lasciare la caserma per riparare a Luneto. Ormai i ribelli della valle hanno trovato un obiettivo e una direzione: gli attacchi a militi della Gnr e amministratori di Salò nella parte più orientale della provincia si moltiplicano. A Borla, Pedina, Vernasca, fascisti isolati vengono circondati e disarmati. I presidi della Gnr vengono attaccati e i partigiani conquistano armi, credito e fiducia. Il percorso intrapreso con l’attacco a Luneto arriva a compimento nel maggio successivo, con il disarmo delle caserme di Rustigazzo e Vernasca, che rendono possibile la liberazione di Morfasso, primo comune controllato dal Cln nell’Italia settentrionale.

Insomma, l’attacco alla caserma di Luneto non è un combattimento tra gli altri, ma riveste per le bande dell’alta Val d’Arda un importante significato identitario. Per la prima volta, gli uomini di Tito e di Giovanni si fanno soggetti attivi, che scelgono di ‘fare qualcosa’, di passare all’attacco. Non a caso, il nome Luneto e la data dell’attacco alla caserma sono cuciti a mano sulla bandiera della 62a Brigata, come il primo combattimento, il banco di prova, della banda partigiana.

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