SL22 – Il sentiero della strage

L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli medi, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in buona forma fisica.

Si tratta di un percorso ad anello, che inizia e si conclude nell’abitato di Strà (comune di Alta Val Tidone) nei pressi del Santuario della Beata Vergine Madre delle Genti (dove è possibile parcheggiare).

A parte il primo tratto, dove sono presenti alcuni segnavia CAI (sentiero 223), il riferimento principale del percorso è la caratteristica segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina. All’ingresso del borgo di Corano è presente un punto acqua.

Difficoltà
Facile
Livello
Turistico
Lunghezza
7,5 km
Durata
2 ore al netto delle soste

Inizio/Fine
loc. Strà di Alta Val Tidone (PC) - loc. Strà di Alta Val Tidone (PC)
Dislivello salita
200 m
Dislivello discesa
200 m

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Una passeggiata tra i vigneti alle radici di una comunità ferita

Una strage è una ferita, uno strappo. Per una piccola comunità che subisce un evento tanto traumatico c’è un prima e un dopo. E in Val Tidone questa ferita è la strage di Strà. Il cammino che si percorre su queste colline ci porta però a conoscere ciò che è rimasto immutato, un territorio che questa comunità ha modellato prima e dopo la guerra. Un percorso tra le incantevoli colline ricoperte di vigneti, caratteristica inconfondibile della bassa Val Tidone.

Si parte proprio dall’abitato di Strà, dove si trova una classica trattoria piacentina. Si attraversa con molta attenzione la SP412R della Val Tidone e si prosegue prendendo a sinistra il sentiero CAI 223 verso la frazione di Case Mossi, salendo poi fino al borgo di Verago. Superato il centro abitato si prosegue fino ad imboccare a destra la strada asfaltata che sale dal fondovalle. Dopo un breve tratto si abbandona la strada asfaltata che sale verso  Sala Mandelli, scendendo verso destra su di uno sterrato che si addentra nei vigneti, in corrispondenza della segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina, che ci accompagnerà per il resto del percorso. Si scende nella piccola valle attraversando il “Rio della Fame”, immergendosi tra i vigneti. Il paesaggio richiama il paziente lavoro di generazioni di contadini che hanno plasmato il territorio. I colori intensi dei filari di vite si alternano con l’avvicendarsi delle stagioni, offrendo scorci sempre nuovi e suggestivi. Si risale quindi fino alla costa dall’altra parte, dove la strada asfaltata ci sfiora sulla sinistra. Si gira invece a destra seguendo la costa in direzione della frazione di Corano. In questo tratto possiamo ammirare a destra le montagne della Val Tidone, con l’imponente Rocca d’Olgisio in lontananza, mentre a sinistra si apre la pianura padana e lo sguardo, nelle giornate con cielo sereno, si può allungare fino alle Alpi. Davanti a noi, Corano, che attraverseremo incontrando la chiesa e il bel castello medievale. Superato il borgo si segue la strada asfaltata tenendo sempre la destra e tornando così al punto di partenza.

Ora, dopo questa rilassante immersione nel territorio circostante, possiamo fermarci un momento in ossequioso silenzio ad osservare il monumento che ricorda le vittime dell’eccidio.

Guerra totale

I civili al centro del conflitto mondiale

Nella Seconda guerra mondiale perdono la vita più civili che militari. Questo la distingue dalla Prima, dove le vittime sono per la stragrande maggioranza soldati morti in combattimento. I circa 45 milioni di civili uccisi tra il 1939 e il 1945 muoiono per lo più nei campi di concentramento, nei bombardamenti strategici e nelle stragi. Ma, in generale, a determinare questo cambiamento è la prospettiva della “guerra totale”, che cancella la differenza tra fronte e retrovia, civili e militari, e coinvolge intere società, militarizzate e direttamente coinvolte nel conflitto.

Dopo l’8 settembre 1943 l’Italia sconfessa il Patto d’Acciaio che la aveva legata alla Germania, e viene invasa dall’esercito tedesco. Per tutti i venti mesi dell’occupazione i reparti militari del Reich compiono stermini di intere comunità, massacri, ed uccisioni necessari a ripulire, controllare e anche desertificare il territorio. I racconti di interi paesi messi al muro e fucilati, di bambini massacrati, di case incendiate e di stupri si moltiplicano e sono tutti drammaticamente simili, nella loro brutalità estrema e insensata. Episodi talmente raccapriccianti da rappresentare una ferita che non riesce a rimarginarsi, ai quali non è possibile dare un senso logico, che spesso vengono ascritti al fanatismo e al sadismo di singoli comandanti.

Al contrario, le stragi di civili fanno parte di un piano di guerra consapevole e pianificato, con precise regole di esecuzione e garanzie di impunità. Contro la popolazione italiana, colpevole di avere “tradito” l’alleanza, vengono messi in atto metodi di guerra già sperimentate sul fronte orientale, che prevedono massacri sistematici.

Gli ordini emanati dal feldmaresciallo Albert Kesselring parlano chiaro: «Difenderò qualsiasi comandante che nel rigore e nella scelta dei mezzi impiegati abbia oltrepassato la misura moderata da noi considerata normale. Esistono località e talvolta zone intere in cui ciascuno, uomini, donne e bambini, è vincolato in qualche modo alle bande, in qualità di combattente, assistente, collaboratore». Un’aperta istigazione allo sterminio, che invita a considerare nemici anche i civili, e che viene raccolta da diversi comandanti tedeschi. Le vittime di questa “politica del massacro” sono oltre 24.0000, tra cui oltre 1.000 bambini. Le stragi si protraggono anche nelle ultime fasi del conflitto, quando i tedeschi mettono in atto una “ritirata aggressiva” che si lascia alle spalle centinaia di cadaveri. Come accade nell’Europa orientale, intere comunità vengono spazzate via: si contano infatti quindici stragi in cui le vittime sono più di cento, segno di una violenza indiscriminata e tesa a fare terra bruciata. La sola Emilia-Romagna conta 4.800 morti inermi ed è teatro, a Monte Sole, della più grave strage nazista di tutta l’Europa occidentale

A partire dagli anni Novanta il tema delle stragi è stato il centro dell’indagine degli storici e delle storiche italiani e tedeschi, ed ha portato nuove spiegazioni e nuove domande. Si è spazzato via per sempre il mito della “Wehrmacht pulita” diffuso in Germania: ai massacri di civili prendono parte non solo i reparti ideologizzati delle SS, ma anche le forze armate regolari. Su di loro, come sull’esercito italiano sui fronti orientali, pesano mentalità coloniali, oltre che logiche strumentali di controguerriglia e controllo del territorio. Ci si è poi chiesto che fine avessero fatto i responsabili delle stragi, intrecciando ricerca storica e ricerca di giustizia per le vittime e gli ormai anziani sopravvissuti. Nel 1994, il ritrovamento di decine di fascicoli di materiale inquirente raccolto dagli Alleati e ‘provvisoriamente’ archiviato nell’armadio della vergogna di una procura militare, riaccende l’attenzione pubblica sulle stragi. Si aprono processi a distanza di anni, e gli storici si trovano nella inconsueta veste di consulenti, per cercare di risolvere omicidi consumatisi cinquant’anni prima. Le tante forme di violenza che avevano caratterizzato l’occupazione tedesca vengono lucidamente analizzate e approfondite. È il caso dei partigiani inermi che vengono uccisi per rappresaglia, i cui cadaveri vengono esposti come monito per le popolazioni. Non si tratta certo di civili, ma comunque di inermi, che vengono prelevati dalle carceri di tutta l’Italia partigiana per lanciare un chiaro messaggio, all’interno di una “politica del terrore” chiara ed inequivocabile. Perdono così la vita, senza alcuna razionalità se non quella di instillare la paura, importanti partigiani piacentini, come Annibale Bruschi “Nibi” e Gino Rigolli “Pesaro”, prelevati dalle carceri, fucilati, e lasciati esposti in diversi paesi dell’Emilia. In questo tipo di violenza un ruolo fondamentale lo hanno le milizie fasciste, che a lungo erano state considerate subalterne e secondarie rispetto agli occupanti tedeschi. Le dinamiche delle stragi e delle uccisioni dimostrano invece che i collaborazionisti di Salò sono protagonisti attivi della violenza, anche nelle sue forme più efferate.

Le riflessioni più interessanti elaborate da storici, ma anche da psicologici e da antropologi, sono state quelle relative alla memoria. In diverse zone teatro di strage gli studiosi rilevavano infatti la diffusione di “memorie antipartigiane”. In un meccanismo di difesa e di razionalizzazione, la colpa del massacro viene spostata dai reali esecutori a coloro che li combattevano, i partigiani, colpevoli di avere turbato la tranquillità dei paesi. Ogni strage portava quindi con sé “memorie divise”, in cui intere comunità individuavano colpevoli diversi, che non sempre coincidevano con gli assassini. Grazie alla ricerca sappiamo che meno del 20% degli eccidi sono chiaramente incasellabili in una logica azione-reazione. Nella stragrande maggioranza dei casi a pesare sono considerazioni tattiche e strategiche compiute dall’esercito tedesco, che prescindono dalle concrete azioni delle formazioni partigiane. È stato così possibile superare annose polemiche localistiche, gettando uno sguardo dall’alto capace di ricomprendere tutti gli episodi singoli all’interno di un disegno di guerra comune. Questo è stato possibile soprattutto grazie allo sforzo del governo tedesco, che ha istituito un Fondo italo-tedesco per il futuro. Se in molti casi punire i colpevoli non è più possibile, la Germania si impegna a finanziare progetti di ricerca e divulgazione che restituiscano verità e conoscenza alle comunità colpite. Tra le iniziative finanziate c’è stato l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, che tra il 2013 e il 2015 ha coinvolto oltre centotrenta ricercatori, e che è consultabile online (www.straginazifasciste.it). Ad oggi, le vittime civili o inermi schedate sono 5.888, in una geografia di sangue che rappresenta una delle pagine più drammatiche della Seconda guerra mondiale.

Una memoria inquieta

La strage di Strà

«Non ho più nulla: né moglie né figlio né casa: non ho che gli abiti che indosso e gli occhi per piangere» sono le parole disperate di Egidio Falsetti, uno dei superstiti della strage di Strà. Si tratta del più cruento eccidio nel Piacentino, in cui perdono la vita nove civili, tra cui il piccolo Alessandro di due anni, che muore abbracciato alla sua mamma.

Il 30 luglio 1944 truppe naziste e fasciste compiono una pesante puntata contro Rocca d’Olgisio, una delle roccaforti della Brigata “Giustizia e Libertà”. La risposta dei partigiani è ferma. In aiuto della 1a Brigata comandata da Antonio Piacenza, che si asserraglia nel castello, accorrono anche gli uomini del Ballonaio e di Muro, e i nazifascisti scelgono di ripiegare. Una ritirata violenta, nel corso della quale si registrano razzie, minacce alla popolazione, furti consistenti di generi alimentari e biancheria. Lungo la strada un gruppo di tedeschi cattura Primino Mazzocchi, di 16 anni, con disabilità intellettiva e lo porta con sé, facendolo oggetto di scherno. Alle 15 e 30 la triste comitiva entra nell’osteria di Strà, gestita dalla famiglia Riccardi, chiedendo pane e salame. Lo offrono a Primino e lo invitano ad andarsene, ma mentre si allontana gli sparano alla nuca. È l’inizio del massacro. I militari fanno partire raffiche di mitra e lanciano bombe a mano nell’edificio. I superstiti vengono finiti a colpi di baionetta, e le cascine vicine date alle fiamme. Rimangono uccisi gli anziani fratelli Clementina e Giuseppe Riccardi, Luisa e Maria Riccardi, Cesare Politi, Aurora Vitali con il figlio Alessandro, e Teresa Cavallari. Come in altri teatri di strage, i partigiani che accorrono sul posto si trovano ad assistere a scene raccapriccianti, facili catalizzatori di un dolore incomprensibile e feroce. Ricorda Stelio Skabic: «Io avevo sulle spalle la campagna di Russia avevo già purtroppo visto agghiaccianti spettacoli, ma a Strà fu tremendo. Sostammo sul posto circa un’ora, ma a un certo punto non capivo più nulla. La gente intorno a noi urlava. C’era chi piangeva, chi si gettava a terra con le mani nei capelli. Poi i borghesi presero a inveire contro di noi urlandoci “È tutta colpa vostra, se voi non eravate in questa zona non sarebbe accaduto”».

Da subito il Cln di Piacenza emana un comunicato che viene diffuso tramite volantini e stampa partigiana, in cui si condanna la strage e si promette vendetta nei confronti degli esecutori, invitando tutti ad unirsi alla Resistenza.

L’eccidio di Strà, nella sua drammaticità, rimane come una macchia di sangue incancellabile nella memoria della provincia. Per lunghi anni si è dibattuto sulle sue “cause”, alla ricerca di una spiegazione razionale per quel surplus di violenza inumana. Oppure si è cercato di individuare i responsabili in gruppi speciali, perché agli occhi dei testimoni una tale ferocia non poteva essere stata messa in atto da uomini comuni, da persone normali. Come per molti altri fatti di questo tipo, la verità processuale ha saputo dare poco conforto alle vittime e alle famiglie. Tra il 1945 e il 1947 vengono celebrati diversi processi alla Corte di assise straordinaria, ma senza arrivare ad una conclusione univoca. Gli imputati si contraddicono, e soprattutto cercano di scaricare tutta la colpa sui soldati tedeschi che in quel momento non possono essere processati da tribunali italiani. Vengono processati il sottotenente Ovidio Vacca e il capitano Ugo Luciani della Direzione Artiglieria (condannati a 24 anni di reclusione), il sergente della Brigata Nera Nando Zilocchi (assolto per insufficienza di prove per Strà, ma condannato a 24 anni per un altro eccidio), e il tenente della X Mas Giuseppe Pasini (condannato alla pena di morte). In realtà, i responsabili scontano solo alcuni anni di carcere, e poi usufruiscono di condoni e amnistie. La voce dei sopravvissuti rimane in parte inascoltata ma ci permette oggi di confermare una solida verità storica: nell’eccidio di Strà, i fascisti della Repubblica sociale non sono semplici spettatori ma autori attivi della violenza. L’episodio si colloca proprio nelle settimane successive agli ordini di Kesselring che invitano a inasprire la guerra contro i civili, e sembra recepirne lo spirito e le garanzie di impunità. A raccogliere le direttive sono non solo i militari tedeschi, ma anche gli uomini della Repubblica sociale, che ormai si sentono sempre più “stranieri in patria”, in una provincia che li isola e li disprezza, e abbandonano ogni possibile proposta politica e dialogo, seguendo la via della guerra totale

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