L’itinerario si sviluppa principalmente su strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli leggeri, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in buona forma fisica.
Si tratta di un percorso ad anello che inizia e si conclude in loc. Malpaga di Calendasco (dove è possibile parcheggiare nell’ampio parcheggio di pertinenza del Parco del Trebbia).
Sul percorso NON sono presenti segnavia: se si esclude infatti il fuggente incrocio con la Via Francigena, il riferimento principale rimane la caratteristica segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina.
Non sono presenti punti acqua sul percorso, quindi si consiglia di rifornirsi alla partenza.
Difficoltà Facile Livello Turistico Lunghezza 10 km Durata 3 ore al netto delle soste
Inizio/Fine loc. Malpaga di Calendasco (PC) - loc. Malpaga di Calendasco (PC) Dislivello salita non significativo Dislivello discesa non significativo
Sull’argine del Grande fiume alla scoperta della “nuova Resistenza”
Nel 1992, dopo le stragi di Capaci e Via d’Amelio, gli studenti italiani scesero in piazza contro la mafia coniando il termine “nuova Resistenza”. Il parallelismo tra la Lotta di Liberazione e il contrasto alla criminalità organizzata sta nell’idea che la mafia, come il fascismo, sia l’antitesi della democrazia, del diritto, della partecipazione popolare alla vita pubblica. Per questo abbiamo scelto di includere in questo percorso una tappa a nostro avviso molto significativa: il “bene confiscato alla mafia” del Comune di Calendasco. Il percorso parte dal parcheggio del “Parco del Trebbia”, in prossimità della località Malpaga, presso l’area attrezzata dal Comune. Si segue la pista ciclabile fino a salire sull’argine che costeggia il fiume Trebbia e lo si percorre per un bel tratto panoramico. Alla nostra destra, al di là del fiume, la città di Piacenza. Quando il Trebbia sta per intraprendere il suo ultimo tratto prima di confluire nel Po, l’argine svolta decisamente a sinistra e costeggia ora il Grande fiume, risalendolo idealmente.
Il paesaggio delle aeree golenali del Po è inconfondibile e sempre affascinante. Vecchie cascine e campi coltivati si alternano a tratti paludosi e incolti, con la costante di un orizzonte aperto da un lato verso il grande fiume, dall’altro verso la pianura e oltre fino alle colline e alle montagne dell’appennino piacentino che possiamo vedere e distinguere chiaramente. Appena dopo la curva si scende dall’argine sulla destra per girare poi a sinistra e costeggiare da vicino il fiume. Dopo poche centinaia di metri si risale e si scavalca l’argine scendendo sulla strada asfaltata che ci porterà alla frazione di Co’ Trebbia Nuova. Si gira quindi a sinistra sulla Strada Malpaga costeggiando due esercizi commerciali e si gira poi a destra appena superata la Chiesa, su Via Cotrebbia Nuova. Poche centinaia di metri e si arriva alla Località Buca, in prossimità dell’acquedotto. Siamo arrivati all’area dove sorgeva la Polveriera, teatro delle azioni del “Moro” e del combattimento che costò la vita al partigiano Alfredo Valla, come ci ricorda il cippo che incontriamo sulla destra della strada, davanti ad una cascina abbandonata. Si prosegue quindi su di uno stretto cavalcavia sull’Autostrada, da percorrere con estrema attenzione. Seguendo la segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina, svoltiamo a sinistra nella zona industriale e poi a destra fino a giungere al “bene confiscato alla mafia”. Si tratta di un ex capannone, ora nella disponibilità del Comune di Calendasco e rappresenta un importante strumento per iniziative culturali e laboratori didattici. Il passaggio a “bene comune” è stato ufficializzato nel 2016 con un importante evento che ha visto la partecipazione del fondatore di “Libera”, Don Luigi Ciotti. Attraversato il parcheggio antistante e successivamente la Strada Malpaga, si segue a sinistra la pista ciclabile che riporterà al punto di partenza.
Il contributo morale e politico della Resistenza è riconosciuto e condiviso. Nella lotta di liberazione, uomini e donne in tutta Europa maturano nuove consapevolezze, conquistano nuovi diritti, plasmano nuovi orizzonti.
Ma quale è stato il reale peso militare della Resistenza? L’idea che i resistenti abbiano combattuto una guerra sostanzialmente inutile ritorna frequentemente nei discorsi di molti, convinti che i partigiani avrebbero fatto meglio a non schierarsi e restare semplicemente in attesa dei carri armati alleati.
Oggi, grazie alla moltitudine di contesti locali studiati dagli storici e dalle storiche siamo in grado di affermare che il peso militare della Resistenza non è stato indifferente. Certo, la guerra partigiana è “ausiliaria” a quella combattuta dagli Alleati, ma non irrilevante. Come tutti i guerriglieri, i partigiani non possono affrontare in campo aperto un nemico immensamente più numeroso, potente ed armato. La loro forza sta nel colpire, sparire e poi colpire di nuovo, costringendo l’esercito di occupazione a vivere nella paura e a disimpegnare uomini e fucili dal fronte.
I resistenti sono inesperti e male armati, ma anche giovani e coraggiosi (a tratti spavaldi e impulsivi) e soprattutto conoscono il territorio infinitamente meglio dei loro nemici. Ogni banda partigiana mette a punto la propria particolare forma di guerriglia, sfruttando valli, montagne e pianure, per colpire, sganciarsi, nascondersi.
A Piacenza, la particolare conformazione del paesaggio, con gli Appennini a pochi chilometri dalla città, permette il dispiegarsi di una particolare tipologia di azione partigiana. È quella delle squadre volanti, distaccamenti avanzati e agili, che fanno base in collina ma scendono spesso e volentieri in pianura per compiere azioni rapide e ardite. Sono gruppi piccoli e affiatati, in genere aggregati intorno a un leader carismatico, che infonde coraggio e audacia. Come scrive Pietro Solari nella prima cronaca ufficiale della Divisione Gl: «Le squadre volanti davvero avevano l’ali, come il falco che piomba sulla preda, ghermisce, ed è scomparso. Lavoravano un po’ dappertutto, ma più in pianura, con una fulminea tecnica a scatto, la quale variava da un comandante all’altro ma aveva sempre le medesime fondamentali caratteristiche: sorpresa velocità decisione». I loro colpi fanno notizia, e hanno spesso il sapore di “beffe” o tiri mancini, giocati al più consistente esercito nazifascista. I “colpisti”, come li chiama Nuto Revelli, incarnano in modo esemplare una battaglia di Davide contro Golia che sa entrare nell’epica popolare. Ogni brigata ha la sua squadra volante, una sorta di élite partigiana, composta dai più coraggiosi e sprezzanti del rischio, ai quali i comandanti riconoscono autonomia e mezzi. Alle volanti sono destinate le armi migliori e le poche autovetture disponibili. Le squadre volanti sono insofferenti alla disciplina militare: in più di un’occasione azioni imprudenti e comportamenti sopra le righe provocano ramanzine e rimostranze.
Nell’estate 1944 i colpi delle volanti si fanno davvero audaci, e si spingono nel cuore della città occupata. Caserme e polveriere diventano meta di azioni frequenti, che conquistano alla Resistenza non poche armi ed esplosivi. Esemplare è l’azione degli Audaci di Giovanni Lazzetti “Ballonaio”, che riescono a introdursi nella caserma di via Caccialupo, nel centro città, conquistando centinaia di fucili, oltre a diverse casse di equipaggiamento. Il colpo dei fucili diventa presto leggenda popolare, e rifornisce in modo consistente la Brigata “Giustizia e Libertà”, che risolve così in un solo momento il problema degli armamenti.
Ma soprattutto le squadre volanti si muovono sulla via Emilia, con puntate che rendono davvero pericolosi i movimenti dei nemici sulla principale via di comunicazione dell’Italia occupata.
Il risultato più grande che le volanti riescono ad ottenere è diffondere la paura nel campo nemico. Le autorità di Salò diramano proclami paradossali, indice di una crescente paranoia e isteria, come il taglio di tutte le siepi ai margini della via Emilia, o l’obbligo di viaggiare solo in convogli armati per non cadere facili prede dei colpisti.
I colpi delle squadre volanti sono pericolosi e spregiudicati. Quattro o cinque partigiani si portano a ridosso della strada, e stanno per ore ad attendere in un fosso, o nelle diramazioni laterali. È una lotta per tenere sotto controllo nervi e paura, in attesa del passaggio di convogli nemici da fermare, con un tranello o una sventagliata di mitra. I conducenti vengono disarmati, talvolta catturati, e gli automezzi tedeschi (con i loro preziosi carichi) vengono condotti a tutta velocità verso la collina partigiana. Non di rado qualcosa va storto, le truppe nazifasciste si rivelano più numerose del previsto, oppure rispondono al fuoco. La fuga non riesce e i colpi si trasformano in trappole. Il rischio corso dai “partigiani volanti” è drammaticamente testimoniato dai tanti cippi che costellano la via Emilia, segno di altrettanti colpi finiti male. Le puntate sulla via Emilia rappresentano il contributo più grande dato dai partigiani piacentini alla “guerra grossa”, più volte riconosciuto pubblicamente dai comandi Alleati, che incoraggiano in ogni modo l’audacia e la combattività delle volanti. Nel loro rapporto finale i britannici riconoscono alla nostra città un merito particolare, perché qui «vennero affidati ai partigiani compiti superiori a quelli attribuiti a qualsiasi altra formazione partigiana in tutta la campagna d’Italia».
«Piccolo, tarchiato, nero da far onore al nome; era attaccatissimo al Comandante Antonio, gli bastava un suo cenno per buttarsi nelle azioni più rischiose, nelle quali dimostrava un coraggio assolutamente straordinario. Balzava coi suoi uomini sulla via Emilia, che fu fino all’ultimo il teatro più illustre delle sue gesta». Così il comandante Fausto Cossu ritrae Cesare Rabaiotti “Moro”, a capo di una delle più famose squadre volanti. Ricorda Renato Cravedi “Abele”: «Oltre al fegato, aveva anche testa: studiava bene le sue azioni nei particolari, perché venissero nel modo previsto».
Nato a Sant’Antonio (Piacenza) nel 1919, figlio di un bergamino socialista, il Moro è autista. Professione che lo salva durante la campagna di Russia, quando si trova soldato, alla guida di un camion incaricato di trasportare i feriti, e che nella Resistenza ne fa un buon colpista. Rientrato a casa dopo l’Armistizio, Cesare Rabaiotti si unisce alle formazioni partigiane di Montenegrino e di Giuseppe Prati, prima di approdare alla brigata “Giustizia e Libertà” di Fausto Cossu, insieme al fratello Lino, guardia comunale, e alla sorella Guglielma, casalinga. Inquadrato nella 1a Brigata comandata da Antonio Piacenza, Rabaiotti, di carattere anticonformista e ribelle, costituisce una squadra volante che fa base ad Arcello e discende spesso in pianura. Dapprima le sue azioni sono “punture di zanzara”, ignorate dai comandi nazisti e fascisti, ma con il passare dei mesi vengono segnalati con crescente preoccupazione nei notiziari della Gnr. Le puntate si fanno più ardite e martellanti: il Moro disarma presidi fascisti, attacca convogli tedeschi, fa irruzione in caserme e arsenali della città.
L’audacia delle squadre volanti della Divisione Gl arriva alle orecchie degli Alleati, che nell’agosto 1944 chiedono ai più noti colpisti di intraprendere una missione speciale. Due squadre, comandante dal Moro e da Giovanni Lazzetti “Ballonaio” si portano nel Cremonese, a Piadena, dove fanno saltare in aria una grande polveriera, che riforniva le truppe tedesche sulla Linea Gotica. Si tratta di una missione speciale, messa a punto con attenzione: i partigiani sono travestiti da fascisti, e si muovono tra le sponde del Po con barche.
Il 5 aprile 1945 il generale Clark fa giungere alle formazioni piacentine un ordine speciale, quello di attaccare a ripetizione l’esercito tedesco preparando l’arrivo degli Alleati: «Attaccate tutte colonne presidi accampamenti nemici/Fate tutto quanto possibile per impedire movimenti nemici su principali linee di comunicazione». Il giorno seguente, Cesare Rabaiotti decide di colpire la polveriera di Cotrebbia, una delle mete abituali delle sue azioni, dove poteva contare sull’aiuto di alcuni infiltrati. Qualcosa però va storto. Da una stalla adiacente alla polveriera escono due soldati tedeschi, che fanno partire alcuni colpi. Rabaiotti è ferito, mentre il compagno Alfredo Valla viene colpito in pieno e muore. Si sviluppa uno scontro a fuoco, che costa la vita a diversi tedeschi, prima che il Moro, nonostante le lesioni, riesca a mettere in moto l’automezzo e darsi alla fuga.
Grazie alle cure del medico della Divisione, poche settimane dopo, Rabaiotti entra a Piacenza liberata con gli stessi pantaloni bucati che indossava alla polveriera. Nel dopoguerra lavora come ferroviere, non ricopre mai incarichi di partito, e rimane sempre fieramente legato all’antifascismo.
Negli anni Settanta, ormai in pensione, il Moro incontra più volte i giovani del Comitato Antifascista Militante, ai quali racconta la guerra delle squadre volanti, quantificando il proprio contributo sulla via Emilia in 48 camion requisiti, 400 prigionieri catturati e 180/200 azioni messe a segno.
Fino alla sua morte (avvenuta nel 1999) continua a richiamare i meriti della propria squadra, in particolare dei suoi compagni fidati “Castagna” e “Baffi”: «Mi fidavo molto di loro, tenevano su tutta la squadra. Se ho fatto quello che ho fatto è solo perché avevo Castagna e Baffi. Anche loro sono piccoli come me ma non è la statura che fa l’uomo».
In effetti, il valore del Moro va ben oltre il metro e 54 centimetri registrati sul ruolo matricolare. Il suo colpo alla polveriera giunge anche alle orecchie del segretario del Pci Luigi Longo, comandante delle Brigate Garibaldi e futuro segretario del Pci che, nel volume Un popolo alla macchia, lo addita come un esempio di efficacia militare tra tutti i partigiani.