L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e brevi tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli leggeri, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in buona forma fisica.
Nei periodi di precipitazioni intense (pioggia o neve) in alcuni tratti del percorso si possono formare depositi (fangosi o nevosi), ai quali occorre prestare molta attenzione.
Si tratta di un percorso ad anello, che inizia e si conclude nel centro di Morfasso, presso il monumento ai Caduti della Val d’Arda (dove è possibile parcheggiare).
A parte la segnaletica posta dai volontari del Museo della Resistenza, NON sono presenti altri segnavia di alcun tipo (non si considera infatti rilevante il breve tratto di sentiero CAI 901 che si incrocia nell’abitato di Guselli): si prega di quindi di mantenere una buona attenzione alla segnaletica posta dai volontari del Museo della Resistenza, contrassegnata da una stella con fondo bianco e bordo rosso. Nell’abitato di Rocchetta, leggermente a monte, sulla destra rispetto al tracciato del percorso, si trova una grande fontana a cui attingere acqua fresca e potabile.
Difficoltà Facile Livello Escursionistico Lunghezza 7,5 km Durata 3 ore al netto delle soste
Inizio/Fine Morfasso (PC) - Morfasso (PC) Dislivello salita 300 m Dislivello discesa 300 m
L’itinerario si sviluppa con un andamento lineare, con tratti generalmente in salita nella prima parte e in discesa nella seconda.
Il punto di partenza è la piazza di Morfasso in corrispondenza del monumento ai Caduti della Val d’Arda, punto di riferimento significativo per la valle e da cui dirama anche il “Sentiero degli Alleati – SL3”. Il percorso imbocca la strada asfaltata SP15 in direzione nord-ovest, che si lascia una volta superati il cimitero di Morfasso e il ponticello stradale sul Rio Tugo, imboccando una traccia sterrata che sale a sinistra.
Mantenendo la direzione nord-ovest si guadagna quota in maniera omogenea, incontrando alcuni rigagnoli poco significativi (Rio della Lubianetta) e alternando tratti appena boscati a piacevoli aperture verso le cime più significative della Val d’Arda, monti Menegosa e di Lama in direzione sud-ovest, Croce dei Segni verso nord-est. In poco più di un’ora si raggiunge l’abitato di Guselli, dove si incrocia l’incedere del sentiero CAI 901, compagnia che si rivelerà tuttavia fugace. Il fulcro ideale del percorso è il monumento eretto al Passo omonimo in onore dei caduti dell’eccidio del 4 dicembre 1944. Fortemente voluto e progettato da alcuni partigiani sopravvissuti all’agguato, il “monumento del Passo dei Guselli” viene inaugurato nel 1984 da Nilde Iotti, prima donna presidente della Camera dei deputati.
Dopo una sosta nel piacevole abitato e un’immersione profonda nei racconti intensi dei fatti dell’epoca, si prosegue l’itinerario scendendo verso sinistra sulla strada asfaltata che prosegue verso l’abitato di Sartori (che non si attraversa), privilegiando tuttavia quasi subito il sentiero sterrato che scende parallelo tra i campi. Alternando ancora una volta tratti boscati ad aperture sulle cime di crinale, si scende incrociando ancora una volta la strada asfaltata, fino a raggiungere il piacevole abitato di Rocchetta e passando per il Monumento ai Caduti. Da qui si prosegue fino ad una deviazione dalla strada principale, che ci porta nel prato a destra e si rientra a Morfasso.
“La Resistenza taciuta” è il titolo del primo libro che raccoglie le testimonianze delle partigiane, pubblicato nel 1976 ad opera di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, ricercatrici e pioniere della storia orale. Sono gli anni del femminismo, e le donne ‒ troppo spesso dimenticate nella narrazione storica ‒ cercano di riprendere la parola dal basso, raccontando le vicende delle proprie predecessore. Oggi, grazie al lavoro di tante storiche, la Resistenza delle donne non è più taciuta, ma è entrata a pieno titolo nel racconto corale della lotta di Liberazione. Un risultato reso possibile anche dall’utilizzo di fonti soggettive (come i racconti delle partigiane, i loro diari, le loro lettere) che hanno permesso di colmare un vuoto di documentazione. Negli archivi e nelle cronache ufficiali delle brigate partigiane, il ruolo delle resistenti infatti è sottovalutato, considerato secondario e subalterno.
In realtà, come ha scritto la storica Anna Bravo, «con l’eccezione delle enclaves di alto prestigio e potere non esistono nella Resistenza compiti o settori dove non compaiano le donne».
Innanzitutto le donne sono protagoniste di quella che è stata definita Resistenza civile. Nascondono i partigiani, li ospitano nelle loro case, cucinano per loro: tutti atteggiamenti a lungo visti come un semplice aiuto, prestato in nome di una naturale predisposizione femminile ai ruoli di cura e assistenza. Oggi siamo invece in grado di leggere questi gesti come atti importanti e rischiosi, che esponevano chi li compiva alle conseguenze più dure della repressione.
Nella storia della Resistenza, un ruolo di primo piano lo hanno le staffette, che a bordo di bicicletta trasportano armi, messaggi e stampa clandestina, e mettono in collegamento bande e distaccamenti. È un compito pericoloso, a stretto contatto con il nemico, che viene affidato alle donne nella convinzione (a volte, drammaticamente, nell’illusione) che la figura femminile possa destare minore sospetto ai posti di blocco.
Alcune donne scelgono anche di imbracciare le armi e combattere. Per loro le difficoltà da superare sono tante: devono lottare non solo contro i nemici ma contro gli stereotipi e i pregiudizi. Vestire abiti maschili, vivere in distaccamenti composti prevalentemente da uomini, svolgere mansioni e compiti considerati da maschio: sono comportamenti considerati fuori dalle righe, che espongono a critiche e maldicenze. Ma, accanto alle difficoltà, nella Resistenza le donne sperimentano anche nuovi ruoli politici. Il Comitato di Liberazione Nazionale incoraggia la formazione di un’organizzazione femminile di massa, i “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà”. Fondati a Milano da donne appartenenti a diversi partiti, i Gruppi incoraggiano manifestazioni di protesta, raccolgono indumenti e cibo per le bande partigiane, portano avanti rivendicazioni politiche. La lotta più importante dei Gruppi è quella per il riconoscimento del diritto di voto, sancito dal governo Bonomi nel febbraio 1945 ed esercitato per la prima volta alle elezioni del 1946, quando le donne per la prima volta votano e vengono elette.
Il dopoguerra delle donne è dunque fatto di straordinarie conquiste, ma anche di ingiuste esclusioni. In molte città, alle donne non viene concesso di partecipare armate alle sfilate di smobilitazione, e tante faticano a ottenere il riconoscimento ufficiale della qualifica partigiana. Questo rende molto difficile oggi quantificare le resistenti: la cifra di 35.000 partigiane combattenti è sicuramente al ribasso. Ma il loro ruolo oggi non è più sottovalutato, e la loro scelta rappresenta agli occhi delle donne di oggi un evento periodizzante, che segna una presa di coscienza collettiva e sfida secolari tradizioni di subalternità e sottomissione.
Come accade a molte protagoniste della Resistenza, Luisa Calzetta, la partigiana più nota nelle formazioni piacentine, rimane ai margini di cronache e libri di storia. Le notizie su di lei sono scarse e frammentarie, e ci permettono di intravedere solo in controluce il carattere e le idee di questa donna. Forse l’indizio più suggestivo che abbiamo è il nome di battaglia che lei stessa si sceglie, “Tigrona”, che ci fa pensare a una guerriera forte, coraggiosa e risoluta. Luisa Calzetta nasce a New York da genitori emigrati dell’Appennino parmense, e fa ritorno in Italia nel 1928. Cresce a Compiano, in una famiglia antifascista, e diventa maestra elementare. È tra i primi a salire in montagna, insieme a una piccola banda di studenti e operai parmensi che fa base nei pressi del Monte Nero. Nell’estate del 1944, la ritroviamo comandante di una squadra partigiana della 61ᵃ brigata “Mazzini”, in Val Nure. Stimata e rispettata, prende parte ai combattimenti per liberare la valle. Diverse foto scattate quell’estate la ritraggono sorridente, in abiti maschili, che imbraccia il suo moschetto. Con i suoi trentacinque anni Luisa è più vecchia di molti suoi compagni, e ha un grado di istruzione sopra la media: questo la rende una comandante autorevole. A scolpire per sempre il suo nome nella storia della Resistenza sono le circostanze della sua morte. Luisa viene uccisa nel più sanguinoso eccidio di partigiani della nostra provincia. Nel corso di un grande rastrellamento invernale, le brigate si stanno ritirando, incalzate da più imponenti contingenti nazisti. Il 4 dicembre 1944 si diffonde la voce che alcuni partigiani, a Prato Barbieri, stanno cercando di resistere all’avanzata nemica.
Chi non vuole arrendersi e ripiegare si mette in cammino, per combattere e fermare le truppe di rastrellatori. Tra questi, non può che esserci la Tigrona, aggregata in quel momento a una squadra guidata dal comandante Giacomo Callegari. All’altezza del Passo dei Guselli, il gruppo cade in un agguato e viene falcidiato da fuoco incrociato di mitragliatrici. Perdono la vita ventiquattro uomini e una donna, la Tigrona. Secondo la memorialistica, Luisa muore da eroina, mentre cerca di aiutare i suoi compagni muovendosi tra i colpi nemici. Nel dopoguerra le viene conferita una Medaglia d’argento alla memoria, e le è intitolata la scuola elementare di Compiano. La prima cronaca ufficiale della Resistenza in Val d’Arda, scritta nei mesi successivi la Liberazione, la definisce «fedele e impavida gregaria», cancellando con un colpo di spugna il suo ruolo di comando e di guida.
1 commento su “SL4 – Il sentiero delle partigiane”
Ester Bergamaschi
grazie per tutto il lavoro fatto per mantenere vivo il ricordo della Resistenza. dobbiamo lasciare ai nostri figli una cultura antifascista.
cercherò di percorrere uno degli itinerari che curate, in memoria e onore di chi ha combattuto anche per la mia libertà
grazie per tutto il lavoro fatto per mantenere vivo il ricordo della Resistenza. dobbiamo lasciare ai nostri figli una cultura antifascista.
cercherò di percorrere uno degli itinerari che curate, in memoria e onore di chi ha combattuto anche per la mia libertà