L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli medi, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in buona forma fisica. Il percorso inizia e si conclude presso la chiesa di Obolo di Gropparello e si sviluppa nella prima parte con un tratto “andata/ritorno” e nella seconda parte con un anello. A parte la segnaletica dedicata, NON sono presenti altri segnavia di alcun tipo: si prega di quindi di mantenere una buona attenzione alla segnaletica posta dai volontari del Museo della Resistenza, contrassegnata da una stella con fondo bianco e bordo rosso.
Sono presenti alcuni punti acqua, situati nei centri abitati che il sentiero attraversa. Poco distante dalla chiesa di Obolo si trova la trattoria “Belveri”. Nei periodi di precipitazioni intense in alcuni tratti del percorso si possono formare depositi fangosi, ai quali occorre prestare attenzione.
Difficoltà Medio Livello Escursionistico Lunghezza 14 km Durata 5 ore al netto delle soste
Inizio/Fine Obolo di Gropparello (PC) - Obolo di Gropparello (PC) Dislivello salita 500 m Dislivello discesa 500 m
Il cammino di don Borea ripercorre idealmente i passi del prete partigiano, dalla sua canonica al preventorio di Bramaiano dove si recava spesso ad assistere i feriti, passando per aree boschive e piccoli paesi. L’itinerario non si sviluppa con un andamento lineare e prevede ampi tratti in discesa nella prima metà e tratti in salita nella seconda.
La partenza è posta in corrispondenza del piazzale della Chiesa parrocchiale di Obolo di Gropparello. Se desiderate entrare, potrete raccogliervi un momento in preghiera, osservando l’interno dell’edificio sacro. È una piccola chiesa di montagna, umile, ma con particolari raffinati e curati. Come la statua di San Bartolomeo Apostolo, oppure l’altare di marmo bianco, entrambi voluti e fatti realizzare da don Giuseppe Borea, che amava l’arte, e voleva che i suoi parrocchiani potessero ammirarla.
Poco dopo la partenza si attraversa l’abitato di Obolo Vecchio, e poi l’itinerario si immerge subito nei boschi che corrono lungo le pendici del Monte Obolo (1100 m), il punto di riferimento principale per tutto l’itinerario.
Gran parte del sentiero si sviluppa nei tipici boschi appenninici di carpini, roverelle, noccioli, e (sopra gli 800 m) in faggete, in un percorso ombreggiato e fresco nei mesi estivi. Dopo il piacevole tratto boscato, il percorso si apre e si attraversano i caratteristici abitati di Monte Solio, Prato Maiano, Martini e Cortelletta, da cui godere di begli scorci panoramici sul torrente Nure, sul comune di Bettola ‒ capitale della omonima Repubblica partigiana ‒ e, sul versante opposto, sulla Val Perino e sulla Val Trebbia. Immediatamente riconoscibili sono Monte Cogno, Monte Osero e Passo del Cerro.
Il Preventorio Chiapponi di Bramaiano di Bettola, sede dell’ospedale partigiano, è posto esattamente a metà dell’itinerario e si raggiunge scendendo via via di quota e percorrendo un tratto della strada provinciale SP15. Si risale verso il Monte Obolo toccando gli abitati di Bigotti, Bergonzi e Monte di Groppoducale, fino a ricongiungersi con il tratto boscato percorso all’andata. Si alternano brevi tratti di asfalto a strade forestali e intimi sentieri sterrati, attraversando ampi spazi agricoli tenuti a seminativo, che nelle stagioni di mezzo ci regalano punti perfetti per un piacevole pranzo al sacco.
La memoria (anzi, le memorie) della Resistenza prendono forma all’indomani della Liberazione, in un mondo polarizzato e segnato dagli equilibri della Guerra fredda. I percorsi dei diversi partiti, che fianco a fianco avevano combattuto il fascismo, si separano bruscamente. In particolare, quelli dei cattolici e dei comunisti, destinati a essere i grandi avversari dell’Italia del dopoguerra. Per tutti la Resistenza rimane un valore identitario condiviso e fondante, eppure i modi di leggere il significato di quell’evento storico, e di raccontarlo, sono molto diversi. Nelle commemorazioni viene sempre più spesso riproposta l’immagine del soldato capace di uccidere senz’odio, del partigiano che rifugge la violenza. Insomma, per dirla con una formula efficace ripresa da una bella preghiera scritta dal partigiano Teresio Olivelli, del “ribelle per amore”.
Negli ultimi anni storici e storiche hanno ribadito la grande importanza della partecipazione dei cattolici alla lotta di Liberazione in tutte le sue forme, armate e disarmate, cruente e incruente. Non mancano infatti cattolici che scelgono consapevolmente di dare la vita ma anche di dare la morte, senza necessariamente essere privi di odio, pacifisti, o obiettori di coscienza (concetto che il magistero ecclesiastico rifiuterà ancora a lungo). Lo fanno ritenendo di combattere una guerra giusta, di esercitare una violenza incolpevole e di collocarsi in linea con la Prima guerra mondiale, quando la Chiesa aveva creato proprie forme di appoggio ai combattenti al fronte. Esponenti importanti del mondo cattolico come il padre costituente Giuseppe Dossetti, i ministri Tina Anselmi e Benigno Zaccagnini, e anche l’esorcista Gabriele Amorth, hanno militato nella Resistenza, e hanno sempre rivendicato l’importanza di quell’esperienza.
Nel composito movimento resistenziale troviamo ovviamente tantissimi fedeli cattolici, ma anche militanti delle associazioni confessionali, e anche diversi membri del clero. Sono uomini e donne attivi nelle reti di salvataggio dei perseguitati politici e degli ex prigionieri, nello spionaggio, nelle bande partigiane in montagna e pianura. Talvolta costituiscono formazioni cattoliche, ispirandosi a nomi patriottici o militari, come le Brigate Julia nel parmense, le Fiamme Verdi nel reggiano o la Brigata Italia nella montagna modenese. Non mancano però esempi di cattolici al comando di brigate Garibaldi, come Aldo Gastaldi “Bisagno” nel genovese.
Alcuni resistenti cattolici sono antifascisti di vecchia data, che provengono dalle fila del Partito Popolare di don Sturzo, sciolto (come tutti gli altri partiti) nel 1926. Ma molti, soprattutto i più giovani che non hanno esperienza dell’Italia prefascista, sono cresciuti nello scoutismo o nell’Azione Cattolica che (pur con alcuni momenti di attrito) era rimasta l’unica associazione non dichiaratamente fascista attiva negli anni del regime. Nel corso del Ventennio, la Chiesa si era a lungo orientata a una pacifica convivenza con il fascismo, in nome di nemici comuni e interessi condivisi, per poi prenderne le distanze velocemente nella fase finale. Dopo il crollo del regime, il Vaticano rifiuta di riconoscere la Repubblica Sociale Italiana e sempre più cattolici scelgono di prendere definitivamente le distanze da Mussolini e dai suoi. Gruppi di intellettuali cattolici iniziano ad elaborare programmi ed idee per il dopoguerra, e vengono intessute le prime reti di resistenza bianca. In un momento di grande crisi del potere centrale le parrocchie diventano punti di riferimento naturali per sbandati e incerti, e sono la base di diversi gruppi clandestini.
Nei giorni della caduta del fascismo nasce la Democrazia Cristiana, che entra nei Comitati di Liberazione Nazionale. I suoi aderenti partecipano alla lotta clandestina all’interno di formazioni unitarie, insieme a persone di altre idee politiche, oppure creano propri raggruppamenti. Alla base della scelta di distaccarsi dai comunisti ci sono in genere divergenze pratiche ma anche strategiche. I cattolici non vedono di buon occhio l’opera di “evangelizzazione” portata avanti dai commissari politici nelle formazioni garibaldine, e in diversi casi hanno un orientamento più cauto, tanto da essere accusati di “attendismo”. Inoltre, i resistenti bianchi guardano al dopoguerra, e vogliono fare sentire il loro peso a fronte al grande attivismo dispiegato dal Pci, molto organizzato e risoluto.
Ad accomunare cattolici e comunisti è però il percorso che porta alla Liberazione. L’opposizione al fascismo rappresenta per i cattolici un importante momento di ingresso nella vita politica del paese, che contribuiscono in maniera fondamentale a plasmare nel dopoguerra. È stato proprio il partigiano cattolico Giuseppe Dossetti a battersi (senza successo) perché nella Costituzione fosse previsto il diritto/dovere di resistere ai poteri ingiusti, definendolo «il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri».
Giuseppe Borea nasce a Piacenza nel 1910, da una famiglia legata all’Azione Cattolica. Ordinato nel 1936, dispiega la sua attività sacerdotale nella montagna piacentina, a Obolo di Gropparello, dove si spende per migliorare la vita della popolazione. È un antifascista, difende strenuamente i circoli di Azione Cattolica dalle prepotenze fasciste, e per questo viene deferito al Tribunale speciale dopo aver subito vessazioni da parte di esponenti del partito. Dopo l’8 settembre 1943 è da subito attivo nella Resistenza e la sua canonica diventa nascondiglio e base partigiana. Nell’estate 1944, don Borea sceglie di diventare cappellano militare della 38a Brigata Garibaldi con il nome di battaglia “Pius”. Si occupa principalmente dell’assistenza spirituale di partigiani e prigionieri, e della cura dei feriti ricoverati all’ospedale partigiano del Preventorio. Ospitato nella sede di una ex colonia elioterapica fascista, l’ospedale partigiano (oggi abbandonato), sorge nell’agosto 1944, quando ampi territori vengono liberati e si avvia l’esperienza di autogoverno della Repubblica di Bettola. Il comandante Emilio Canzi decide di fare confluire al Preventorio i partigiani e i prigionieri feriti da tutta la provincia, affidandoli alle cure di medici di fiducia, come l’ebreo Rinaldo Laudi “Dino”, espulso dall’ospedale Mauriziano di Torino a causa delle leggi razziali.
Più volte segnalato per le sue attività, don Giuseppe Borea viene arrestato nella sua canonica e fucilato al cimitero di Piacenza il 9 febbraio 1945. Particolare scalpore desta il processo con il quale il giovane prete viene condannato, che a tutti appare sommario e tendenzioso. Per screditarlo, il giornale fascista La Scure lo chiama inoltre con l’offensivo appellativo di “don Boia”. La condanna di don Giuseppe non si limita a punire il prete-partigiano, ma intende colpire l’intera comunità cattolica piacentina, che sempre più velocemente si sta distaccando dal fascismo. L’uccisione del parroco segna così la definitiva rottura tra le autorità provinciali della Repubblica Sociale e le gerarchie episcopali, che si attivano senza successo per tentare di salvarlo. Inoltre, la fucilazione di un membro del clero appare da subito come un atto empio e ingiusto, che suscita riprovazione. Anche per questo, nel dopoguerra verranno celebrati numerosi processi alla Corte di assise straordinaria contro i fascisti accusati di avere denunciato don Borea, di avere preso parte al “processo-farsa” e di avere eseguito la sentenza di morte. Al parroco di Obolo verrà conferita, negli anni Settanta, una medaglia d’argento al valor militare.
La storia di don Borea testimonia quanto la Resistenza sia un movimento composito e difficile da dividere in compartimenti stagni. L’uomo di chiesa si arruola in una formazione garibaldina, e collabora con uomini e donne che vengono da altre idee e altri percorsi, esattamente come don Giovanni Bruschi, parroco di Peli e braccio destro del comandante anarchico Emilio Canzi. Nel piacentino ‒ a differenza delle altre province emiliane ‒ non si costituisce una brigata cattolica, e i partigiani bianchi combattono nelle formazioni rosse o gielliste. Questo forse anche a causa della cattura dell’avvocato Francesco Daveri, uomo di punta dell’Azione Cattolica e della Democrazia Cristiana in provincia, che muore nel campo di concentramento di Mauthausen, privando i cattolici piacentini di una guida autorevole. Molti partigiani bianchi confluiscono nella Divisione Valdarda che, anche se nasce come formazione garibaldina per volontà del comunista Vladimiro Bersani “Capitano Selva”, viene guidata fino alla Liberazione dal democristiano Giuseppe Prati.