L’itinerario si sviluppa su sentieri e strade forestali. Data la distribuzione del dislivello e la presenza di un tratto classificato come EE (escursionisti esperti) lungo la cresta del Monte Nero il sentiero è adatto a persone abituate a percorsi di montagna con difficoltà medio elevata. Il percorso, per le sue caratteristiche, è consigliato in primavera ed autunno. In inverno, viste le quote raggiunte, la presenza di neve e ghiaccio rende la salita al Monte Nero adatta solo ad escursionisti esperti e dotati di adeguata attrezzatura. In estate si sconsiglia di affrontare i tratti più esposti nelle ore centrali. In caso di pioggia, anche nei giorni precedenti, considerare non solo la scivolosità dei tratti su roccia ma anche nel tratto in discesa tra il Monte Bue e la Fontana Gelata. Si tratta di un percorso ad anello che inizia e termina al Passo dello Zovallo dove è presente un ampio parcheggio. Il sentiero segue nel tratto iniziale il sentiero CAI 001, proseguendo nella salita al Monte Nero sullo 003. Terminata la cresta si riprende lo 001 sino alla cima del M. Bue, da cui si prosegue per un breve tratto sullo 009. Giunti alla terrazza dove arriva la Ferrata Mazzocchi si trascura quest’ultima e si segue un breve tratto, privo di segnaletica CAI, che riporta al sentiero 007 da seguire sino alla Fontana Gelata. Da qui si prende il sentiero CAI 011 verso il Lago Nero dove si ritrovano le indicazioni per il Passo dello Zovallo ed il sentiero CAI 001 che riporta alla partenza. I tratti privi di segnaletica CAI così come il passaggio tra i diversi sentieri saranno contrassegnati della segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina.
Lungo il percorso è presente il punto acqua della Fontana Gelata.
Difficoltà Difficile Livello Escursionistico Lunghezza 9 Km Durata 4 ore al netto delle soste
Inizio/Fine Passo dello Zovallo Dislivello salita 700 m Dislivello discesa 700 m
Il percorso è ad anello con partenza/arrivo dal Passo dello Zovallo, posto a quota 1410 mt (dove è presente un ampio parcheggio per le auto), e tocca le alte cime che coronano la Val Nure offrendo molteplici spunti di meraviglia. Si inizia a percorrere il sentiero CAI 001 all’interno della maestosa faggeta per poi abbandonarlo dopo circa 500 mt a favore del sentiero CAI 003 che conduce, con un’erta salita, sino alla cima del Monte Nero. A mano a mano che si guadagna quota, i faggi lasciano spazio a vere rarità botaniche, che insieme alla inconfondibile geomorfologia del territorio, raccontano dell’evoluzione dell’Appennino durante le Grandi Glaciazioni. Il profumo resinoso del Pino uncinato, qui presente nell’unica stazione spontanea dell’Appennino settentrionale, accompagna sino alla vetta, posta a 1752 mt. Da lassù si può apprezzare tutta la spettacolarità di queste montagne, affioramenti ofiolitici dalle venature inconfondibili che testimoniano la storia glaciale del nostro territorio. La spettacolare cresta del Monte Nero cinge come un abbraccio la conca del Lago Nero, nelle cui acque si riflettono alberi maestosi e cieli azzurri. Nella Tana del Monte Nero, altro importante paleosito situato sul fianco meridionale della montagna, si trovano esemplari relitti di Abete bianco di oltre 300 anni. Proseguendo lungo il crinale ci si imbatte in una paretina rocciosa, ripida ma non verticale né esposta, la cui discesa è agevolata dalle naturali sporgenze e dalla presenza di un cordino posto dal CAI da usare come corrimano. Si sottolinea inoltre che, viste le alte quote raggiunte dal sentiero, durante la stagione invernale la cresta potrebbe presentare ampi tratti innevati e ghiacciati pertanto è da considerarsi adatta solo per camminatori esperti e con adeguata attrezzatura. Terminato il crinale si giunge alla Sella della Costazza e da lì, con un breve tratto in salita lungo il sentiero 001, si raggiunge la vetta del Monte Bue (1775 mt), caratterizzata dalla presenza dei segni di un’edilizia votata in passato al turismo sciistico, ma che oggi prova a sopravvivere dandosi nuovi obiettivi di attraversamento del territorio. A circa 4 km dalla partenza il regalo per il camminatore è la vista aperta verso la Liguria, che nelle giornate terse permette di vedere il mare, le insenature ed i promontori che fanno da contraltare al panorama verso nord dove lo sguardo spazia sino all’arco alpino. Ci si trova nel crocevia di tre province e di tante storie che hanno dato vita a numerose leggende e fiabe che ancora si raccontano nelle valli del Nure, dell’Aveto e del Ceno. Storie legate alla figura di San Colombano, in perenne lotta contro il diavolo e i suoi sgherri, di lupi e pastori e di fonti miracolose. L’escursione procede verso l’arrivo della Ferrata Mazzocchi, una splendida terrazza sull’alta Val Nure dalla quale si possono scorgere le cime del Groppo delle Ali, ai piedi delle quali si trova il Bivacco Sacchi (sentiero CAI 009 che si tralascerà per riprendere lo 007 ed evitare la discesa in ferrata). La discesa su sentiero è ripida e soprattutto in caso di fondo bagnato diventa piuttosto scivolosa, pertanto sono assolutamente raccomandati bastone o bastoncini. Il Bivacco, essenziale nella sua struttura e dotazione, è nato nel 1966 per volontà del CAI piacentino, che aveva individuato in una vecchia carbonaia il luogo ideale per la realizzazione di un rifugio che permettesse ad appassionati ed arrampicatori di dormire ai piedi della loro parete. Da lì, inoltre, si raggiungono in poco più di cinque minuti l’attacco alla Ferrata Mazzocchi e la Fontana gelata, prossima tappa del sentiero. La fontana si trova lungo un ruscello di acqua limpide che scorre in una faggeta ad alto fusto, capace di regalare atmosfere magiche che rendono quanto mai credibili le leggende sugli spiriti che abiterebbero questi boschi. Un’atmosfera in grado di mantenere lo sguardo incantato sino al Lago Nero, che si raggiunge tramite il sentiero 011, dove lo spettacolo è assicurato dalla ricchezza di fiori, dalle forme ardite dei faggi e dal gracidare delle rane che vivono in queste acque. La zona è attrezzata con tavoli e panche che invitano a godere della pace del luogo prima di riprendere il sentiero 001 e rientrare al Passo dello Zovallo, attraversando antiche torbiere e carbonaie. Il percorso si trova all’interno di un territorio dal grande valore naturalistico, paesaggistico, geologico e storico, ed infatti l’area è inserita nella sua porzione ligure all’interno del Parco dell’Aveto e nella sua parte emiliana all’ interno di una ZSC. La fitta rete sentieristica consente di adattare al meglio l’escursione alle capacità di tutti e tutte e la presenza di un Rifugio al Prato Cipolla rappresenta una valida occasione per gustare la ricchezza enogastronomica del territorio.
Cresciuti all’ombra del Littorio. Studenti tra fascismo e Resistenza
Nel dicembre 1943, poco prima di entrare in clandestinità e unirsi alla Resistenza, Concetto Marchesi, rettore dell’Università di Padova, rivolge ai suoi studenti parole accorate: «Studenti: non posso lasciare l’ufficio del rettore senza rivolgervi un ultimo appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano. Studenti: mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta assieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla schiavitù e dall’ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace nel mondo». Diffuso clandestinamente, l’appello di Marchesi raggiunge tanti giovani in tutta Italia e li convince a diventare partigiani. Per gli studenti superiori e universitari, generalmente di estrazione borghese, l’impatto con la durezza della vita di banda è spesso difficile. Scrive Luigi Meneghello: «Tecnicamente i ragazzi di pianura, più o meno studenti, erano in complesso materiale poco pregiato. Due cose giovavano principalmente in questo genere di esperienza, la nurture [educazione] montanara, oppure essere canaglie per natura; quelli fiorivano subito, gli altri no. Non capivano la montagna, e tanto meno la banda, l’embrione di banda che eravamo». Superate le difficoltà, sono comunque numerosi gli studenti attivi nel movimento partigiano, nelle bande in montagna ma anche nelle città, dove gruppi di liceali distribuiscono volantini, scrivono sui muri frasi antifasciste, organizzano azioni dimostrative. Per questi ragazzi, educati dal fascismo, la Resistenza segna un momento di crescita e maturazione personale. Inoltre, la consapevolezza del ruolo che la scuola fascistizzata aveva avuto nella tenuta del regime spinge a un profondo ripensamento delle pratiche educative. Nel corso del ventennio, scuola e università erano state fortemente imbevute di propaganda totalitaria. Educazione e inquadramento di bambini e ragazzi erano monopolio delle organizzazioni di massa del regime, che aveva fatto della “giovinezza” uno slogan e un modello da seguire. Nelle università, i Gruppi universitari fascisti (Guf) erano stati l’unica organizzazione consentita (se si escludono i cattolici della Fuci), attorno ai quali ruotavano le attività sportive, assistenziali, culturali e politiche per gli studenti. Particolarmente seguiti erano i “littoriali”, gare di sport, arte e cultura, alle quali partecipavano membri dei Guf di tutta Italia. Consapevoli di quanto le ideologie e gli slogan del fascismo avessero plasmato le giovani generazioni, i dirigenti antifascisti si pongono da subito il problema del reinserimento dei ragazzi, principali bersagli della propaganda, nella vita dell’Italia nuova. Era possibile, e come, trasformare i cittadini di uno stato totalitario in cittadini del nuovo stato democratico? La ‘generazione del littorio’ poteva davvero riscattare le sorti del Paese oppure era da considerare una generazione perduta, irrimediabilmente compromessa e corrotta dal fascismo? La sfida viene colta da giovani antifascisti di diverso orientamento politico, che danno vita al Fronte della Gioventù (FdG), associazione interpartitica in grado di organizzare la mobilitazione di ragazze e ragazzi. Un’associazione pluralista, ben diversa da quelle totalitarie, che potesse essere, per una generazione diseducata alla politica, una palestra di confronto democratico. I programmi del FdG fanno presto il giro d’Italia, entrano nelle fabbriche, sono distribuiti davanti alle scuole, vengono pubblicati sui giornali partigiani e spingono molti a unirsi alla Resistenza. Parallelamente, il movimento partigiano comprende che è necessario segnare un cambio di passo, riconvertendo l’intero apparato educativo e ripensando le basi della scuola. Nelle zone libere si fanno i primi esperimenti: si riaprono gli edifici scolastici danneggiati dalla guerra, si richiamano in servizio insegnanti antifascisti e si cercano libri alternativi al testo unico imposto dal regime. Per rimanere nel Piacentino, sono diversi i segnali di attenzione dei dirigenti della lotta clandestina nei confronti del mondo della scuola. Il comandante unico Emilio Canzi apre personalmente l’anno scolastico nella zona libera di Bettola condannando l’educazione fascista che aveva fatto dei ragazzi «strumenti di guerra, non uomini» e auspicando una scuola nuova. Il Cln nomina un responsabile delle scuole liberate: è il maestro antifascista Davide Bruschi, fratello di don Giovanni, parroco di Peli e cappellano militare delle formazioni piacentine. Il dirigente democristiano Francesco Daveri, nel corso delle sue missioni di intelligence, si preoccupa che tra le armi aviolanciate ai partigiani vengano forniti anche nuovi libri scolastici, stampati nell’Italia liberata. Anche a Piacenza, gruppi di studenti universitari (riuniti intorno a Luigi Broglio e Cesare Baio), e giovanissimi liceali del ‘Gioia’ (come i fratelli Gasparini e i fratelli Molinari) sono tra i primi a mobilitarsi all’indomani dell’armistizio. Un esempio luminoso di una ‘meglio gioventù’ in cerca di riscatto e di futuro.
Nella tana delle volpi. Studenti e operai sul Monte Nero
La storia del gruppo del Monte Nero ha inizio nell’autunno 1943, quando un gruppo di giovani parmensi, da poco presentatisi alla chiamata alle armi della Repubblica sociale, scelgono di disertare e salire in montagna. Paolo Credali “Ivan”, Raffaele del Ninno “Ralf”, Santino Amoroso “Klim”, Attilio Derlindati “Mongolo” e Vincenzo Baldassi “Enzo” sono studenti del liceo classico Romagnosi, figli della buona borghesia parmense. Ferdinando Guerci “Caio” e Otello Ghillani “Pablo” provengono invece dai quartieri popolari della periferia e sono operai, soffiatori di vetro alla vetreria Rocco Bormioli. Più tardi, si uniranno alla compagnia anche un gruppo di giovani valnuresi, guidati da Ernani Locardi “Nani”, commerciante di Bettola, da Gino Cobianchi “Gino del Torrazzo”, impiegato di Vigolzone e ufficiale degli alpini, e dai fratelli Milza di Rigolo, Rinaldo “Turco” e Mario “Aquilino”. Si tratta di un incontro tra mondi diversi, da cui nasce una profonda amicizia. La condivisione della vita quotidiana, delle difficoltà del primo inverno passato in montagna, diventa così uno straordinario veicolo di egalitarismo, che appiana per un po’ le differenze geografiche e di classe sociale. Dopo alcuni mesi, passati sul Monte Penna, roccaforte partigiana, il gruppetto si trasferisce in val Nure, zona impervia dove la Resistenza fatica a radicarsi. La base del distaccamento è nella foresta alle pendici del Monte Nero, dove i giovani costruiscono due rudimentali capanne fatte di tronchi, che ribattezzano ‘la tana delle volpi’. Forse perché, come racconterà anni più tardi uno di loro, lo studente “Ivan”, «avevamo la presunzione di essere furbi come le volpi». Il luogo è strategico e permette di muoversi a cavallo tra Piacentino, Parmense e Genovese. Il gruppo sceglie come comandante Ernesto Poldrugo “Istriano, ufficiale di Marina, che con i suoi trentasei anni appare a tutti un uomo fatto, quasi vecchio. È forse in una delle sere trascorse all’accampamento, a parlare e confrontarsi, che i compagni stringono un patto: al primo di loro che sarebbe morto sarebbe stato dedicato il distaccamento. In effetti, nonostante la giovane età e l’inesperienza dei suoi componenti, la banda dell’Istriano si dimostra da subito combattiva e risoluta. Nelle azioni si distingue Ferdinando Guerci “Caio”, operaio di vent’anni, con il suo distintivo grido di battaglia: «Dai! Dai! Dai!». Man mano che cresce la confidenza e la conoscenza del territorio il gruppo, pure se composto soltanto da pochi elementi, decide di aumentare il livello dello scontro e di liberare dalla presenza fascista l’alta val Nure. Il 17 maggio 1944 viene liberata Ferriere. Nei giorni successivi, l’attacco viene portato ancora a Bettola, cuore pulsante della valle, dove per diverse ore i partigiani circondano e bersagliano di colpi l’Albergo centrale. Il 27 giugno è la volta di Farini d’Olmo, dove la battaglia si protrae per alcuni giorni. Presa la caserma dei carabinieri, i ribelli circondano il presidio della Gnr e iniziano a sparare ma i militi rispondono al fuoco. Il primo a cadere è Caio, colpito da una pallottola alla testa. Subito dopo viene colpito Amedeo Polledri “Guido”, ventunenne di Ponte dell’Olio: i compagni lo caricano su una scaletta e lo trasportano a Ferriere ma non riescono a salvarlo. Queste prime perdite saldano per sempre la banda, che ormai controlla tutta l’alta Val Nure: nasce la 59a Brigata Garibaldi, che non può che essere intitolata a Caio. Una formazione agile e combattiva, che alla fine dell’estate, a causa di attriti con la 60a Brigata “Stella Rossa” del Montegrino, si trasferisce in Liguria. Qui la “Caio” opera come brigata di manovra, che si sposta di frequente per compiere azioni di guerriglia e disturbare il traffico nemico. Nei giorni della liberazione, diverse foto ritraggono gli uomini dell’Istriano che sfilano vittoriosi per le vie di Genova. Ferdinando Guerci “Caio” continua a vivere in un canto partigiano che i suoi compagni intonano spesso: «Sono imberbi giovinetti/e qualcuno è un uomo già/Arde un fuoco nei loro petti: voglion pace e libertà/Il suo motto fu “Dai! Dai!”/Caio è il primo nel cader». Proprio quel motto “Dai! Dai!” diventa il titolo del giornale di brigata. Ripensando ai giorni difficili ma avventurosi trascorsi sul Monte Nero, i giovani combattenti compongono una canzone evocativa, che ricorda l’entusiasmo e l’unicità di quell’esperienza: «Quando al figlio tuo racconterai/quello che avvenne lassù/nelle tue vene sentirai/tutta la tua gioventù/ E ti parrà di vedere/una pattuglia lassù/sulla montagna/sulla montagna/sotto le ombre della sera/c’è sulla vetta una bandiera/che per i ribelli veglierà ancor».